Sono sul piede di guerra e pronte a far valere i diritti di coloro che sono più a rischio di discriminazione sociale. In Argentina le organizzazioni per la difesa dei diritti delle persone con disabilità si stanno mobilitando contro la riforma delle pensioni di invalidità voluta dall’amministrazione del presidente Javier Milei. Lo scorso gennaio l’Agenzia nazionale per le disabilità argentina (ANDis), con la Risoluzione 187/2025, ha stabilito i criteri con cui determinare la cosiddetta “inabilità al lavoro” che – secondo il decreto 843/2024 – è tornata a essere un requisito indispensabile per percepire l’assegno di invalidità. Criteri che sono esclusivamente di tipo medico-diagnostico, e non tengono conto né delle le risorse individuali, né delle eventuali barriere fisiche, sociali, economiche e culturali che possono ostacolare l’ingresso nel mondo del lavoro di una persona con disabilità. Per capire meglio la portata della riforma di Milei proviamo a fare un esempio. Se io – persona con un’invalidità pari al 100 per cento – fossi argentina, con la nuova normativa percepirei la pensione di invalidità ma non potrei più lavorare. In Italia invece, anche con questa percentuale di invalidità, se supportata da adeguati sostegni, potrei avere un impiego retribuito senza perdere il diritto all’assegno, a meno che il mio reddito non superi il limite stabilito stabilito ogni anno dall’Inps (nel 2024 era 19.461,12 euro).
Qualcuno ricordi a Milei che la disabilità non è una caratteristica individuale
La mossa di Milei oltre a mandare su tutte le furie attivisti e organizzazioni è in netto contrasto con la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, secondo cui non esistono inabili al lavoro ma tutti possono avere una occupazione se aiutati con i giusti sostegni. Per questo gli attivisti argentini chiedono che nell’individuare i beneficiari della pensione di invalidità si tenga conto non solo di parametri medici, ma anche dei fattori culturali, economici e sociali che ostacolano, o al contrario facilitano, i cittadini con disabilità nell’esercizio dei loro diritti. Invece di stabilire se una persona ha o meno un’invalidità in base a una diagnosi – suggeriscono le associazioni – si potrebbero individuare gli elementi che ostacolano il suo potenziale ingresso nel mondo del lavoro (per esempio i pregiudizi sociali nei suoi confronti) e valutare di conseguenza il tipo di sostegno più adeguato. La Risoluzione invece considera la disabilità una caratteristica individuale, concetto sbagliato e ormai superato, e non come il risultato dell’interazione tra la condizione di salute di un individuo, le sue caratteristiche personali e quelle dell’ambiente in cui vive.
“Ritardo mentale”, “idiota”, “imbecille”: un linguaggio che accomuna Milei a Trump
Ma il documento ha suscitato sgomento e indignazione anche per il tipo di linguaggio con cui è stato scritto, tanto che l’ANDis è stata costretta a far pubblica ammenda e assicurare che la terminologia sarà al più presto adeguata agli standard vigenti. Parole contenute nel testo come “ritardo mentale”, “idiota”, “imbecille”, “debole di mente” appartengono infatti a un passato di cui si vorrebbe scongiurare il ritorno, in Argentina come nel resto del mondo. Invece proprio questo tipo di linguaggio e queste politiche sono molto simili a quelli promossi dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump. L’irricevibile sparata del tycoon in occasione dell’incidente aereo di Washington, quando si scagliò contro la Federal Aviation Administration (FAA) – l’agenzia del Dipartimento dei Trasporti degli Stati Uniti responsabile della regolamentazione e della supervisione dell’aviazione civile – accusandola di assumere lavoratori con «gravi disabilità intellettive, problemi psichiatrici e altre condizioni mentali e fisiche» ha fatto il giro del mondo. Ed è finita nel calderone di idee e opinioni che alimentano una cultura abilista, secondo la quale chi non rientra nella “norma”, definita tale dalla medicina, è inferiore e meno competente rispetto alla popolazione “normodotata”.
Lo smantellamento dei programmi di inclusione negli Usa
Non meno grave è stato lo smantellamento del Programma Dei (Diversity, Equity and Inclusion), un insieme di provvedimenti che garantiscono (o, meglio, garantivano) pari opportunità ai cittadini a rischio di discriminazione, tra cui anche quelli con disabilità. Come non ricordare inoltre l’ordine di cancellare le iniziative di promozione della diversità e dell’inclusione nelle scuole e alle università del Paese, pena il rischio di perdere i finanziamenti federali? E non dimentichiamo il provvedimento, fortunatamente poi revocato su ordine di un giudice federale, tramite cui Trump aveva congelato i fondi federali a favore dell’inclusione delle persone con disabilità. Atteggiamenti che rafforzano l’idea che le persone con disabilità rappresentino solo un peso per la società. O addirittura, come nel caso dell’incidente aereo, una minaccia per la sicurezza nazionale. Come tali dunque sono sacrificabili. Secondo Trump, ma lo stesso vale per Milei, tutti coloro che non rientrano nei canoni artificiali di normalità sono da isolare. Se la retorica dei due presidenti è pericolosa perché rafforza gli stereotipi e i luoghi comuni di cui già le persone con disabilità sono vittime, le politiche di Argentina e Stati Uniti rappresentano drammatici passi indietro sul fronte del riconoscimento dei loro diritti. Un rischio che va stroncato sul nascere.
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