«Tassiamo gli extraprofitti delle banche!», dice Andrea Crippa, voce di Matteo Salvini quando Matteo Salvini non vuole parlare. «E basta con questa retorica degli extraprofitti, mica siamo in Unione Sovietica!», risponde l’altro vicepremier, Antonio Tajani. Esaurita la doverosa cronaca del dibattito politico della maggioranza a pochi giorni dall’approvazione della legge di Bilancio, facciamo due conti con l’aiuto di un pezzo di carta. Giorgia Meloni dice che il suo governo non alzerà le tasse come fa di solito la sinistra, ma talvolta capita in sorte anche alla destra. Nel 2025 saranno circa dieci miliardi, benché in un’ottica sostanzialmente redistributiva, come vorrebbe la sinistra: dieci miliardi è ciò di cui ha bisogno il governo per confermare in busta paga gli sgravi contributivi concessi a chi guadagna fino a 35mila euro l’anno.
Le bozze del «Draft Budgetary Plan» che il Tesoro deve inviare a Bruxelles entro la mezzanotte di martedì dicono che l’anno prossimo ci saranno 24, forse 25 miliardi fra minori entrate, tagli alla spesa e maggiori tasse. Nove verranno garantiti da un aumento del deficit a «legislazione vigente», poco più di due dall’aumento strutturale delle entrate fiscali, tre o quattro da tagli alla spesa dei ministeri e dei trasferimenti agli enti locali. «Fate proposte di tagli altrimenti farò io il cattivo», ha detto Giancarlo Giorgetti sabato alla festa del Foglio.
L’appello di Giorgetti è stato accompagnato da diplomatiche pernacchie dei colleghi, e per questo il leghista ha già avvertito come andrà a finire: se i colleghi non collaboreranno, ci sarà un taglio orizzontale a tutte le spese del cinque per cento, per legge. Era quel che accadeva quando al Tesoro c’era un vecchio amico di Giorgetti, Giulio Tremonti. «Altre soluzioni non ce ne sono, e non sarebbero nemmeno politicamente percorribili», va spiegando il ministro nelle telefonate. Perché il resto saranno nuove entrate o riduzioni di agevolazioni esistenti. Vediamo quali.
Tre miliardi arriveranno dalla mancata conferma dell’Ace, acronimo di «Aiuto alla crescita economica», in poche parole un’agevolazione fiscale concessa alle imprese che rafforzano la struttura patrimoniale delle imprese. Quei tre miliardi - è deciso da tempo - verranno utilizzati per rendere strutturale l’accorpamento delle prime due aliquote Irpef. Già da quest’anno la fascia dei redditi fra i quindici e i ventottomila euro, che fino all’anno scorso pagava un’aliquota del 25 per cento, ora versa al Fisco il 23. Circa un miliardo sarà garantito da quella che il governo ha definito la «rimodulazione» delle accise sui carburanti. Sui dettagli occorrerà attendere qualche giorno, ma si dovrebbe trattare di un aumento delle tasse sul gasolio compensate da una riduzione di quelle sulla benzina. Almeno un altro miliardo verrà da una riduzione delle agevolazioni fiscali minori, alcune fra le oltre 600 che si affastellano nel gorgo del sistema italiano.
Circa mezzo miliardo potrebbe arrivare da una stretta sui profitti in Italia delle multinazionali del web e dei bonus aziendali concessi ai top manager. E poi c’è la questione della tassa sulle grandi aziende, banche e assicurazioni. E qui viene utile tornare alla polemica fra la Lega e Forza Italia di cui sopra.
La prima ipotesi accarezzata dal Tesoro era un intervento sui cosiddetti «extraprofitti» di banche e assicurazioni, una soluzione adottata in passato dai governi Berlusconi e Draghi, finita in entrambi i casi di fronte alla Corte costituzionale. Tajani, leader di un partito le cui fidejussioni sono nelle mani della famiglia Berlusconi, si dice contraria al principio, più che all’aumento in sé delle tasse. Sia come sia, le ultime indiscrezioni che arrivano dal Tesoro parlano di un inasprimento delle aliquote Ires e Irap, dunque un aumento secco delle tasse sopra una certa soglia di fatturato, più o meno quel che farà il governo Barnier in Francia. Fra il Tesoro, l’Associazione delle banche e Confindustria circolano bozze di articolato che prevedono un gettito aggiuntivo attorno ai quattro miliardi di euro. Una cifra che grandi imprese e istituti di credito considerano indigesta.
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