Sulla carta restano una manciata di giorni. Se non fosse per i problemi del premier francese Michel Barnier, se non fosse per gli scatoloni che circolano ai piani alti della Commissione europea in attesa della nuova squadra, il governo sarebbe tecnicamente nei guai. Martedì il governo spedirà a Bruxelles la bozza (in inglese) della legge di Bilancio per il 2025, ma si tratterà solo dei grandi numeri, quelli che ormai conosciamo. Il problema verrà dopo, quando sarà necessario approvare in Consiglio dei ministri il disegno di legge. Se il Tesoro rispettasse i tempi previsti dalle regole comunitarie, l’ultimo giorno utile sarebbe il 20 ottobre, una settimana esatta dalle elezioni in Liguria. L’isolamento politico cui è costretto Giancarlo Giorgetti spiega molto della difficoltà della maggioranza ad accettare il prezzo delle regole europee e di un contesto internazionale complicato: due giorni fa la Banca d’Italia ha confermato che quest’anno il Pil crescerà solo dello 0,8 per cento.
Il 2025 per Giorgia Meloni è l’anno dell’imbuto: è quello della prima applicazione del nuovo patto di Stabilità europeo, e in cui occorre stringere di più la cinghia più di quanto sarà necessario nel 2026 e 2027, quando lo spazio per finanziare le spese in deficit sarà più largo dei “soli” dieci miliardi di quest’anno. «Fate tutti uno sforzo», va dicendo ai colleghi ministri che la sentono in queste ore. Se in pubblico si incarica di spegnere gli incendi verbali del ministro del Tesoro, in privato è perfettamente consapevole della posizione scomoda di Giorgetti.
Il problema è che i ministri non hanno alcuna intenzione di dare seguito alle richieste di Giorgetti. Si sta ribellando Matteo Salvini, che ieri ha voluto pubblicizzare un incontro di chiarimento con il collega di partito. Hanno chiesto più fondi o quantomeno non vogliono tagli ai rispettivi dicasteri Guido Crosetto (Difesa), Matteo Piantedosi (Interni) avanzano richieste Valditara (Scuola), Calderone (Lavoro), Lollobrigida (Agricoltura). Quest’ultimo, a precisa domanda, la mette così: «Giusto che il ministro faccia il suo lavoro e si attivi per ridurre le spese, noi cerchiamo di dargli una mano, basta che si punti a tagliare solo le cose che non servono in un’ottica condivisa».
Giorgetti ha fatto sapere a tutti che quest’anno non c’è flessibilità che tenga. Le nuove regole europee hanno introdotto il concetto di «spesa aggregata» che dovrà rimanere costante per almeno un triennio, al netto del costo degli interessi sul debito. Una delle raccomandazioni fatte pervenire dal Tesoro agli altri ministeri è ad esempio di evitare residui di spesa, ovvero di mettere a bilancio fondi per spese che non verranno realizzate con certezza. Ma anche questo appello è finito nel nulla. La gran parte dei ministri è convinta Giorgetti non faccia sul serio, e che alla fine le lamentele avranno la meglio. Nessuno vuole fare i conti con lo scontento dei rispettivi gruppi di interesse. Fra le poche eccezioni, la ministra dell’Università Annamaria Bernini.
«Se non mi manderete la vostra pianificazione procederò con i tagli lineari, è ciò che prevede la legge», va spiegando Giorgetti. «Siccome non vogliamo aumentare le tasse, siccome abbiamo introdotto un concordato per gli autonomi, e siccome abbiamo deciso di rendere strutturali gli sgravi alle famiglie, il resto è eventuale e accessorio». L’anno scorso il taglio alle spese per ministeri, enti, Regioni e Comuni si era fermato a due miliardi. Per il 2025 il conto salirà a tre, ma al Tesoro avvertono che potrebbe essere necessario fare di più: tre miliardi e mezzo, forse quattro. A chi protesta viene fatto notare quel che sta accadendo a Parigi, dove la previsione di tagli alla spesa sbandierata pubblicamente da Barnier è di quaranta miliardi, dieci volte tanto. La spesa sociale in Francia verrà tagliata per quindici miliardi, i soli ministeri dovranno risparmiarne cinque. E a votare questi numeri all’Assemblea nazionale sarà un governo di minoranza.
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