Quando questa intervista sarà in edicola, Stéphane Lissner sarà già tornato nella sua casa di Parigi. Ieri pomeriggio, poche ore dopo la scadenza del suo mandato alla guida del San Carlo, ha lasciato Napoli. Ma prima ha voluto salutare per l’ultima volta le maestranze e il personale amministrativo del teatro. E l’ha fatto su quel palco che, qualche mese fa, ha ospitato l’allestimento di «Rusalka», l’opera lirica di Dvoràk, che s’è guadagnato il prestigioso premio Abbiati per le scenografie. È un addio dolce-amaro quello di Lissner. Lascia, ma la sua poltrona resta vacante («in nessun teatro del mondo sarebbe possibile»).
«In questi cinque anni tutti hanno fatto un lavoro professionale e straordinario, nonostante abbiamo avuto registi esigenti e non era facile, non era scontato», dice sfogliando il dono che ha ricevuto. Un libro fotografico con tutte le opere e i lavori programmati in questi anni ambiziosi. L’ultimo scatto immortala il figlio, il più piccolo, avuto a 70 anni. Affacciato da un palco del teatro, occhi azzurri come il papà: «Ama la musica, d’altronde ce l’ha nel sangue».
A 19 anni ha fondato il suo primo teatro. Poi tante esperienze, fino a La Scala, all’Opéra, e al San Carlo. Cosa l’ha colpita di più quando è arrivato a Napoli?«Le relazioni umane. Questa è una famiglia, non c’entra niente con Scala e Opéra. Ci sono confronti, amori, odi. Tutto molto napoletano. Però c’è l’energia, l’immaginazione, un sentimento di appartenenza che non ho mai trovato altrove. È stata un’esperienza umana bellissima».
Il primo giorno?«Non sono potuto venire, era il primo aprile 2020. In Italia fu chiuso tutto per Covid. E dunque iniziai a lavorare da remoto. Ma il secondo incontro lo ricorderò per sempre: il San Carlo a piazza Plebiscito. Siamo stati i primi a riaprire in Europa e per noi sono venuti Kaufmann e Netrebko».
Aveva pregiudizi sul San Carlo prima di guidarlo?
«Di più. A Milano mi dicevano che era impossibile lavorare a Napoli e al Sud. Quando ho deciso mi hanno detto: sei matto, c’è la mafia, avrai problemi. Era tutto negativo, tranne il fatto che stiamo parlando di un teatro tra i più belli. Invece è stato il contrario. Cernjakov o Warlikowski non sarebbero venuti in altri tempi. Invece hanno dato vita a progetti difficili. Tecnicamente il San Carlo non era stato abituato a registi di questo rango. Ma tutti hanno contribuito e lo hanno fatto. Anche l’amministrazione è cambiata di livello perché il progetto era più ambizioso».
All’inizio ha trovato qualche resistenza.
«Piccole resistenze. Quando hanno capito la mia visione è cambiato anche l’atteggiamento. Fondamentale è stato creare una squadra: la direttrice del ballo, i direttori del cast e del coro, poi la nomina di Emmanuela Spedaliere a direttore generale. Insomma, uno staff di livello alto. Perciò spero che ci sarà la continuità. Non ci sono tante fondazioni che hanno questa qualità, sarebbe un delitto intaccarla».
L’attuale Consiglio d’indirizzo, che scadrà alla fine del mese, non ha nominato ancora il suo successore perché il ministero della Cultura ritiene che questa prerogativa spetti al nuovo. È preoccupato?
«Moltissimo. Dopo aver preso le misure, anche le relazioni sindacali sono andate bene. Bisogna dire la verità ai lavoratori. Noi lo abbiamo fatto. Oggi il patrimonio è di 50 milioni di euro. Il bilancio è in pareggio. I lavoratori sono stati rassicurati, perché serve fiducia per far bene. Questa è la stabilità di cui parlo e di cui ha bisogno il San Carlo. Siamo nel Sud, il teatro è fragile perché i contributi sono pochi. Le retribuzioni sono troppo basse e non va bene. Questo meccanismo va cambiato. Per assicurare gli stipendi, durante il Covid, ci siamo inventati i corsi di formazione. Ma è tutto fragile, perciò le decisioni per il futuro sono fondamentali. Bastano sei mesi a distruggere quanto abbiamo costruito negli ultimi cinque anni».
È il momento di chiarire alcune cose, a fine mandato. Lei ha capito perché il presidente De Luca ha ingaggiato con lei una battaglia a suon di comunicati, fondi tagliati, veti nel cdi?
«Penso che la questione con me nasca da Riccardo Muti. Io, durante il Covid, ho detto no a un concerto con Muti perché costava 300 mila euro. Potevamo pagare una cifra simile mentre i lavoratori non avevano gli stipendi? Ho detto di no allora e lo rifarei. La Regione si era resa disponibile a pagare il costo della serata, ma era comunque indecente visto il momento storico».
I suoi difficili rapporti con il maestro Muti risalgono ai tempi della Scala. Cosa c’entra De Luca?«Dal 2005 il nostro rapporto si è complicato. Ma non sono stato io a mandarlo via dalla Scala. Forse sbaglierò, ma temo che De Luca sia stato influenzato dal maestro e perciò si sia messo contro la dirigenza del San Carlo. Mi è dispiaciuto, ovviamente, ma lo ribadisco: per me non è un problema dire no a Muti, se penso che sia giusto per il teatro».
Durante la sua conferenza stampa di fine mandato lei ha detto che in Italia c’è un’ingerenza della politica nella cultura che altrove non c’è. Perché secondo lei?«Qui la gente ha paura di perdere la poltrona. Invece bisogna imparare a dire no. Io, a Milano, ho detto di no anche a Berlusconi».
Quando?«Aveva detto che la Scala poteva andare avanti con 400 dipendenti, invece che con 900. Gli risposi: caro presidente, c’è sempre tempo per imparare. Sono rimasti in 900 e sono stato riconfermato lo stesso. È vero, lo Stato ti aiuta con le sovvenzioni pubbliche. Ma se pensi che sta sbagliando, hai il dovere di dire no anche al presidente del Consiglio. Io difendo l’istituzione, tuttavia non sono qui per Manfredi e De Luca ma per i lavoratori e i cittadini. In nome del San Carlo, sindaco e presidente della Regione si sono fatti la guerra sulla pelle nostra. Non è stato un bello spettacolo».
Però lei è andato avanti e ha vinto la battaglia giudiziaria contro un decreto «ad personam» del governo Meloni, che voleva spedirla in pensione anticipata e concedere il suo posto a Carlo Fuortes.«Il teatro mi è stato accanto e mi ha dato la forza necessaria a far valere i miei diritti. Senza questo sostegno sarei stato più debole».
Ministro, sindaco, governatore: nessuno le ha chiesto di rimanere, vero?«No, figuriamoci. Se ci fosse stato il governo precedente avrei fatto altri cinque anni. Con questo governo non avrei mai accettato».
Ma non gliel’hanno chiesto.«Mi hanno chiesto una proroga di 45 giorni e ho detto di no».
Perché il cdi è in scadenza e si attende il nuovo per la nomina del sovrintendente.«Questo è grave e dimostra che la politica occupa i teatri ma non se ne occupa, altrimenti sarebbe stato scelto il sovrintendente e io lo avrei aiutato nel passaggio di consegne. La verità è che nessuno ha a cuore il destino della Fondazione San Carlo. Neppure il sindaco, che è il presidente, se ne è occupato. Cosa, a mio avviso, molto grave».
In che senso?«La responsabilità della continuità è del presidente. Oggi me ne vado e non c’è nessuno a sostituirmi. Ho detto no perché comunque tra 45 giorni non ci sarà il mio successore. Allora per quale motivo rimanere? Solo in Italia funziona così. Altrove sarebbe impossibile».
Cosa farà adesso?«Avevo ricevuto tre proposte ma ho detto di no a tutte. Voglio vivere tranquillo dopo 53 anni di lavoro senza mai uno stop. È la prima volta che succede nella mia vita».
E come si è organizzato? «Ho scoperto che la mattina posso leggere. Il cervello è fresco. Due ore la mattina e ricordo tutto. Mi cambia la vita. Poi voglio andare a teatro. Per me fondamentale. Nel pomeriggio scriverò. Sto lavorando a un libro sul gusto».
Un sogno che qui a Napoli non ha realizzato? «Non ho potuto avere l’agibilità per il teatro di corte a Palazzo Reale dove proporre il repertorio del ‘700. Un vero peccato , sarebbe stato il giusto tributo a una gemma del patrimonio musicale e un regalo offerto a quella che, nonostante le mille difficoltà, rimane una grande capitale della cultura europea ».
Cosa vuol dire a coloro che sono stati suoi concittadini per cinque anni?«Grazie di essere napoletani. Il mélange tra difetti e pregi rende davvero unica questa città. Sono felice di averla conosciuta».
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