martedì 24 settembre 2024

Vita con mio padre, Arnold Schoenberg, esule a Los Angeles. Intervista a Nuria Schoenberg di Pietro Acquafredda ( da Music@, bimestrale, n.25, nov-dic 2011)

 

Nuria Schoenberg Nono racconta gli anni americani del grande compositore

VITA CON MIO PADRE, ARNOLD,

ESULE A LOS ANGELES



Sessant’anni fa, il 13 luglio 1951, a Los Angeles, dove era emigrato con la famiglia nel 1933, per sfuggire alle persecuzioni razziali del Terzo Reich, moriva Arnold Schoenberg. Per tale anniversario, a Vienna il mese scorso, la fondazione intitolata al celebre musicista, s'è tenuto un convegno internazionale di studio sui rapporti fra il musicista e l'Italia;  sullo stesso tema l'archivio della fondazione ha inaugurato una mostra documentaria, che resterà aperta fino a gennaio e nella quale vi sono esposti materiali inediti ed assai interessanti che illustrano i rapporti - felici! - che Schoenberg ebbe con musicisti ed ambienti musicali del nostro paese. E, forse, se si reperiranno fondi ad hoc, a partire da questo mese di novembre, e per il semestre successivo, Bologna, per ricordare Schoenberg, organizzerà concerti e manifestazioni parallele. Intanto anche sul fronte della ricerca sono usciti recentemente alcuni studi nei quali si offrono dati che, secondo la figlia del compositore, Nuria, non corrispondono a verità, come ora si accinge a raccontare.

Partiamo dall'inizio. Come e quando la decisione di abbandonare l'Europa, appena vennero fuori le  terribili ed infami leggi razziali.

Mio padre s'era trasferito a Berlino, da Vienna, per succedere a Busoni, nel 1926, nella cattedra di composizione, rivolta a compositori già affermati ed in attività, provenienti da tutto il mondo, presso la Preusssische Academie der Kuenste. Era la cattedra di composizione più prestigiosa d'Europa all'epoca. Mio padre aveva cinquant'anni, aveva già scritto opere importanti, alcune anche rivoluzionarie, aveva esposto e sperimentato il suo 'metodo di composizione con dodici suoni' ed era perciò molto conosciuto e stimato, al punto da succedere a Ferruccio Busoni in quel prestigioso incarico. Aveva un contratto molto vantaggioso che lo legava all'Accademia per sei mesi l'anno, lasciandolo libero per gli altri sei, durante i quali poteva dedicarsi interamente alla composizione. 

Mio padre, malato di asma da bambino, nei mesi liberi dall'insegnamento, si trasferiva in luoghi dal clima più mite dove lavorare e curarsi. D'inverno, perciò, abitava con la famiglia sulla riviera francese, a Lugano, in Spagna, a Barcellona, dove nel 1932 sono nata io, ricevendo, per volere di mio padre, un nome che più catalano non poteva essere, Nuria. 

Anche prima di trasferirsi a Berlino, a Vienna mio padre aveva insegnato, avendo fra i suoi allievi musicisti di grande valore come Webern, Berg... ma questa è storia nota. Dopo che Hitler prese il potere, nel '33, ed emanò le leggi razziali, in base alle quali nessun ebreo poteva avere una posizione ufficiale nel paese, come era quella di Berlino, mio padre decise immediatamente di lasciare la Germania, il che avvenne in quello stesso anno. 

Mia madre (Gertrud Kolisch, sorella del violinista Rudolf, sposata da Schoenberg in seconde nozze nel 1924, dopo la morte della prima moglie, Mathilde Zemlinsky, sorella del compositore ndr.) aveva annotato nel suo taccuino, che ho potuto vedere quando ho scritto la biografia documentaria di mio padre, 'telegramma di Rudy, cambiare aria’. Cosa era accaduto? 

Mio zio, suo fratello, all'estero a Firenze per concerti con il 'Quartetto Kolisch’, inviò un telegramma a mio padre nel quale gli scrisse ‘per la tua salute sarebbe meglio che tu cambiassi aria’. Si trattava naturalmente di un messaggio in codice; mio padre capì bene il senso e in ventiquattro ore partimmo alla volta di Parigi; lì restammo solo qualche mese prima di imbarcarci, a Le Havre, sull'lle de France che ci avrebbe portato negli Stati Uniti, New York, dove sbarcammo il 31 ottobre del 1933. Mio padre aveva accettato un incarico in un piccolo Conservatorio, a Boston.

Per dirla in parole povere, sareste partiti da Berlino come gli emigranti di una volta, con una valigia e basta.

Credo di sì, forse più di una valigia, ma con pochissime cose - lo stretto necessario. Lo deduco anche da una lettera inviata a sua sorella a Berlino nella quale mio padre la pregava di spedire a Parigi una certa valigia, nella quale c'erano 'le mie scarpe nere, perché senza non posso andare ai concerti'. Penso che in quella valigia, di cui chiedeva l'invio a Parigi, c'era qualcosa di più importante delle scarpe nere (qualche manoscritto?) a cui teneva. La sorella di mio padre provvide a far arrivare, successivamente, tutto il resto ( libri, mobili ecc...) in un deposito a Parigi.

Quindi non portò con sé i manoscritti delle sue opere?

No. I manoscritti delle opere più importanti erano custoditi da prima presso l'editore viennese, Universal Edition. Nel 1935, finalmente, mio padre fece arrivare in America, a Los Angeles, tutte le sue cose. Il trasporto lo pagò un compositore che, volendo studiare con Lui, gli anticipò il pagamento delle lezioni di un intero anno, e mio padre poté avere nella sua casa americana, libri, vestiti, e tutte le sue cose, mobili compresi (fra cui un pianoforte 'mezzacoda', e un tavolo da pranzo per dodici). E così la nostra casa di Los Angeles venne arredata con tutto ciò che c'era nella casa di Berlino. Mio marito, Luigi Nono (sposato nel 1954) che non conobbe mio padre di persona, quando vide per la prima volta la casa di Los Angeles, nel 1964, restò molto colpito per il fatto che lo studio di mio padre era un'isola berlinese/viennese in America. Ora tutto il lascito di mio padre, è a Vienna dove sono conservati anche i manoscritti delle sue opere, la corrispondenza ecc.. tutto insomma.

E a Los Angeles non è rimasto nulla?

Nulla. Il rettore dell'Università dove mio padre aveva insegnato ha spiegato, intervistato dalla BBC, che 'un archivio non produce, non rende'; lui lo ha detto con una espressione abbastanza greve. Si tratta di una università privata che ha preferito investire in una squadra di football che ha molto successo e che quindi dà lustro, a suo parere, all'università. Devo anche aggiungere che in quella Università c'è un dipartimento dedicato al cinema, molto importante, mentre il dipartimento di musica si dedica maggiormente alla formazione degli esecutori piuttosto che alla ricerca musicologica.

A Los Angeles, quale fu la sistemazione della sua famiglia, dopo che suo padre aveva ottenuto l'incarico di 'full professor' nell'Università della California?

Si trasferirono in una casa molto grande che ebbero in affitto ad un prezzo vantaggioso, perché era sfitta da alcuni anni: su due piani, con giardino, in uno stile spagnoleggiante, non di moda, ed in una strada non particolarmente importante, ma soprattutto non lontana dall' Università. In seguito la riscattarono e divenne di loro proprietà. Nei primi anni a Los Angeles, alcuni musicisti del mondo del cinema, che guadagnavano molto e che volevano poter dire di 'aver studiato con Schoenberg' vennero a casa nostra per un primo colloquio; mio padre, che in un primo tempo li aveva ascoltati gratuitamente, cominciò a farsi pagare, anche bene (250 dollari, per il colloquio che spesso durava un paio d'ore). Questo rese possibile l'acquisto della casa entro la metà del 1937, a rate di 230 dollari al mese. Poi non avrebbe più avuto disponibilità di fondi, soprattutto durante la guerra e dopo il suo pensionamento dalla università. Mio padre si impegnava molto nell'insegnamento, all'Università faceva lezione per una decina di ore a settimana. Agli allievi che non potevano pagare, mio padre faceva lezione gratis, come aveva fatto anche con Berg e con tanti altri, nei suoi anni in Europa.

Finito l'insegnamento all'Università, dopo otto anni, a settant'anni, come provvedeva alla famiglia?

Aveva una miseria di pensione: 29,60 dollari al mese, in relazione ai pochi anni di insegnamento: era trattato come 'tutti gli altri’, il che gli fece molto male. Continuò ad insegnare privatamente, a tenere conferenze. Quando insegnava all'Università, dove arrivava alle 8.30 di mattina e doveva farsi tre piani di scale per raggiungere la sua aula al terzo piano, aveva chiesto al rettore, a causa della sua asma, peggiorata con gli anni, di avere un'aula ai piani inferiori; la risposta fu: 'se lo facciamo per lei, dobbiamo farlo per tutti’. Mi dispiace dirlo, ma in America, nella Università, lui era uno dei tanti, non aveva mai avuto il riconoscimento e la considerazione degli anni di Berlino.


Strano quello che dice se, invece, i giornali americani per mesi scrissero di questo noto musicista che aveva scelto il loro paese per il suo esilio, in fuga dal nazismo.

Sì è vero, i giornali ne scrissero per un certo tempo dopo il suo arrivo, ma soprattutto per far sapere al mondo che l'America stava accogliendo e salvando molti ebrei importanti che Hitler perseguitava. Si fecero concerti, alcune associazioni ebraiche si mossero, molti direttori volevano eseguire le sue opere... non bisogna dimenticare che lui era famoso, ed aveva già sessant'anni, al suo arrivo in America, perciò tutto il clamore era giustificato. Naturalmente la sua musica non era così conosciuta; si fecero alcuni concerti. Ma dove, come e con quanto pubblico?

E le sue opere grandi del periodo americano, almeno quelle venivano eseguite nelle sedi importanti?

Sì, anche se non molte volte; ebbe certo prime esecuzioni con direttori importanti ed in sedi prestigiose, ma questo non nei primi anni americani. Fu naturalmente molto contento di Mitropoulos che tenne a battesimo ‘Un sopravvissuto di Varsavia’. Ci furono esecuzioni, non molte, alcune anche nelle Università, con ensemble di studenti, che non erano certo paragonabili ai Berliner Philharmoniker, a Berlino. E del resto l'America non era come la Germania che aveva teatri e orchestre e gruppi cameristici in ogni città. Scrisse anche articoli nei quali si augurava, dando anche suggerimenti pratici, che l'America diventasse, nel settore della musica, più simile all'Europa. Comunque fu sempre grato agli Stati Uniti, per esser stato accolto, e per avervi potuto vivere. Non è che tutti i paesi accettavano in quegli anni rifugiati ebrei, e questo mio padre non l'ha mai dimenticato, lo ha scritto tante volte agli amici europei; non posso dire che sia arrivato al punto da considerare l'America la sua 'seconda’ patria, questo no!, tuttavia vedeva sempre i lati buoni del paese, del quale apprezzava il clima della California. Poi, anche in America ebbe allievi che gli davano soddisfazione, fra essi Cage. Era un insegnante appassionato, lo faceva con dedizione totale. Nell'archivio, a Vienna, conserviamo i compiti che egli assegnava per gli esami ai singoli allievi - molti dei quali studiavano musica nell'Università, senza pensare di dedicarsi alla composizione - uno diverso dall'altro, a seconda delle capacità di ciascuno che conosceva bene. Mi sa dire quale insegnante fa questo?

Dopo la guerra, nella vita di suo padre è cambiato qualcosa? Voglio dire: ha cominciato a viaggiare, è tornato in Europa, le sue condizioni economiche sono migliorate?

No, non si è mai mosso, perché la sua salute è peggiorata, ma anche per problemi economici; per fortuna avevamo la casa, a Los Angeles dove vivevamo ( papà, mamma, noi tre figli e la mia nonna materna). Per vivere, ha naturalmente continuato ad insegnare privatamente, una volta andato in pensione - ogni domenica teneva un corso in casa; e l'ha fatto fino a pochi anni prima di morire, quando aveva gravi e frequenti bronchiti che lo costringevano a restare nella sua camera al primo piano, dalla quale non usciva quasi mai (è andato in pensione a settant'anni, ed è morto a settantasette, nel 1951, ndr.). Per fortuna in quegli anni vi fu qualche commissione (come nel caso di 'Un sopravvissuto di Varsavia') che gli procurò delle entrate, perché anche i diritti d'autore, maturati in Germania, per effetto soprattutto delle esecuzioni delle sue opere, non gli venivano accreditati in quanto considerato uno straniero, per giunta nemico. Durante la guerra, non ha mai avuto notizie di suo figlio che non era voluto venire in America ed era rimasto a Vienna (uno dei due figli avuto dalla prima moglie); e questo gli procurava angoscia. A proposito di aiuti ricevuti da mio padre, le racconto un fatto molto curioso. Il celebre clarinettista Artie Shaw, molto ricco, quando conobbe mio padre apprese con grande disappunto delle sue condizioni economiche non floride. Ed anche del fatto che non riceveva i diritti che gli spettavano. Allora si è mosso garantendo egli stesso presso l'editore, e così gli fece avere una consistente somma di denaro che fece vivere tranquillo per un po' mio padre.

Nella corrispondenza di suo padre, non si accenna mai ai Berliner (definiti da alcuni 'l'orchestra del Reich'), o a Furtwaengler, del quale si è detto che non ebbe nei confronti del regime un atteggiamento deciso di condanna, anzi... Non ha mai affrontato questo tema con sua madre?

Sì, vi sono lettere nelle quali si accenna al problema. Quando, dopo la guerra Furtwaengler voleva venire in America, dovette scontrarsi con l'atteggiamento apertamente ostile di Toscanini, dettato più dal timore di una possibile concorrenza che da ragioni politiche. Avevano chiesto anche a mio padre, in quell'occasione, se secondo lui Furtwaengler era stato nazista (intanto nessuno conosceva allora documenti oggi venuti alla luce, sui quali ragionare a ragion veduta, in un caso come nell'altro). Mio padre scrisse che un uomo di tale sensibilità, artista di così grande valore, non era possibile si fosse macchiato di tale infamia. Fra l'altro nei pochi mesi parigini, all'inizio del '33, Furtwaengler che aveva tenuto a battesimo le 'Variazioni per orchestra' op.31, nel '28, con i Berliner, era andato a trovarlo. Mia madre mi ha raccontato che durante quell'incontro, Furtwaengler aveva chiesto a mio padre se era il caso che anche lui lasciasse la Germania. Nel '33, erano in molti a pensare, sbagliando, che Hitler sarebbe durato poco; e pare che mio padre abbia detto a Furtwaengler: ma no, lei non è ebreo, perché vuole andare via? Se vanno via tutti i migliori, la Germania perde la sua identità, rischia di annullare la sua storia. Spesso gli studiosi assumono posizioni errate, estrapolando frasi dal contesto e dalle circostanze storiche nelle quali furono pronunciate.

Suo padre e Toscanini hanno mai avuto contatti?

Nessun contatto, Toscanini non aveva nessun interesse per la musica di mio padre, che, per questo, era molto risentito.

E con Stravinskij?

Neanche con Stravinskij, che aveva stile di vita, mentalità molto diversi da mio padre. Finché mio padre è stato in vita non c'è stato nessun contatto fra i due, certo mio padre conosceva la sua musica. Dopo la morte di mio padre, attraverso Robert Craft, ha voluto conoscere e studiare la dodecafonia, e l'ha anche usata in alcuni suoi pezzi molto noti.

Suo padre, in America, ha dovuto mettere la sordina all’ uso della dodecafonia?

No, nessuna sordina, nessuno l'ha costretto; anche in America, in verità, ha scritto pezzi dodecafonici come pezzi tonali. E, del resto, la dodecafonia per mio padre rappresentava solo 'un' metodo di composizione, che nessuno era costretto ad usare sempre e ad ogni costo, lui compreso che ne era l'autore, l'inventore.

E con Bela Bartok, anche con lui nessun rapporto, anche se va tenuto presente che il musicista ungherese è vissuto in fondo per pochi anni in America?

Purtroppo no, e questo non me lo so spiegare. Sicuramente conosceva le sue opere. Ma non si può dimenticare che fra New York, dove viveva Bartok, e Los Angeles, dove abitava mio padre, vi sono circa 5000 km di distanza. Ho cercato anche una possibile corrispondenza. Purtroppo non ho trovato nessuna corrispondenza, seppur ridotta, nel catalogo delle lettere pubblicato sul sito del 'Centro Schoenberg' di Vienna.

Al funerale di Bartok, al quale in tanti dicono di esser stati presenti, furono in realtà solo una decina in tutto, secondo quanto ci ha confessato il pianista Gyorgy Sandor, allievo ed amico del musicista; al funerale di suo padre c'era una folla a seguire il feretro?

Non c'era tanta gente; anche perché è morto d'estate, il 13 luglio; forse una quarantina di persone o poco più: famiglia, amici nostri. In internet esiste anche un filmato del funerale, dal quale si può capire che c'erano poche persone. Fu cremato e le sue ceneri sono ora a Vienna.

Cosa pensava suo padre dell'allievo John Cage? Lei lo sa?

A mio padre Cage piaceva molto. Di lui diceva che era un 'inventore', più che un compositore. lo l'ho incontrato a Darmstadt con mio marito, Luigi Nono, e i due sono rimasti amici. Cage venne a trovarlo a Los Angeles. Una volta volle 'preparare il nostro pianoforte Ibach, per spiegare a mio padre la sua idea. Quando Cage andò via, a tavola, mio padre disse di lui che era un inventore, e sotto questo profilo lo stimava. Cage suscitò molta attenzione anche in Europa, a Darmstadt, dove in molti erano alla ricerca di una formula, di un' idea per scrivere musica moderna, d'avanguardia e Cage sembrò offrila quest' idea. Del resto prima di quegli anni, le sue composizioni sono molto accademiche.

Le va di toccare il tema dei rapporti fra suo padre e Thomas Mann, a proposito del 'Doctor Faustus' ? In una recensione del loro epistolario, Cesare Cases dice di suo padre che era 'bellicoso' e 'suscettibile’, e che, se fosse dipeso da suo padre, i due non si sarebbero mai più riconciliati.

Questo non è vero, semmai è vero il contrario. Mio padre vedeva ogni tanto Mann, a casa di Alma Mahler, dove noi si andava abbastanza spesso. Durante quegli incontri, non ha mai fatto cenno a mio padre del romanzo che stava scrivendo. 

Nella corrispondenza fra Thomas Mann e Adorno, ad un certo punto lo scrittore scrive al filosofo: quando Schoenberg leggerà il mio romanzo, mi toglierà il saluto. Dunque Mann sapeva benissimo di fare una cosa molto scorretta e di nascosto. Mio padre diceva spesso che se Mann lo avesse interpellato lui avrebbe creato appositamente un sistema di composizione adatto al suo personaggio (Adrian Leverkhun); perché - a dire di mio padre -dalla testa di Leverkhun non sarebbe mai potuta uscire la dodecafonia. 

Mio padre l'ha presa molto male, si è ammalato, ed oso pensare che gli abbia perfino accorciato la vita. Poi è stato mio padre a scrivere a Mann e non viceversa: facciamo pace, mostriamo al mondo che due grandi possono riappacificarsi, nonostante il torto subito. Mann gli ha risposto che lui non aveva fatto nulla contro mio padre, che anzi lo aveva sempre stimato ed ammirato. Insomma non si rendeva conto di quanto terribile fosse ciò che aveva fatto. Mio padre era preoccupato pensando al fatto che un grande scrittore come Mann che avrebbe avuto eserciti di lettori, molti di più di quanti ne avrebbe avuto la sua musica, avrebbero potuto equivocare, pensando che Leverkhun fosse mio padre, e la sua teoria la dodecafonia. E aveva ragione. Ancora oggi, incontro persone che mi dicono: signora, so tutto di suo padre, perché ho letto il 'Doctor Faustus’. Occorre pensare che nel ‘48 mio padre era in pensione, non considerato, la sua musica non eseguita, in isolamento... è chiaro che era depresso. Come mai quel signore non gliene aveva mai parlato? Per lui fu un dolore terribile.

Da ultimo, lasciamo gli Stati Uniti e Thomas Mann e veniamo all' Italia. Sembra che i rapporti di suo padre con musicisti e istituzioni musicali italiani siano stati sempre buoni, nonostante che alcuni che ebbero rapporti con lui, come Casella, fossero dichiaratamente fascisti? Quest'ultimo, in particolare, non l'ha mai influenzato - suo padre, intendo?

Sì, è un aspetto interessante questo; cosa che il mondo non sa, e per questo ho organizzato il mese scorso il convegno a Vienna. In una recente intervista video Roman Vlad ha raccontato del suo arrivo a Roma, dodicenne, ammesso nella classe di Casella, quando porta con sé anche la musica di mio padre, di cui suonava l'op.19. In Italia nessuno o quasi conosceva la sua musica, nonostante ci fosse stata nel '24 la famosa tournée italiana, con il 'Pierrot lunaire' diretto da mio padre, nelle città più importanti, ascoltato anche da Puccini che lo apprezzò e lo andò a salutare, facendo felicissimo mio padre. Ho potuto consultare i giornali dell'epoca. Su 'Pierrot lunaire, prima e dopo l'esecuzione, pagine su pagine in tutti i giornali. La stampa diede una importanza incredibile all'esecuzione italiana del 'Pierrot'. Né va dimenticata l'influenza che sui compositori ha avuto la musica di mio padre, uno per tutti Luigi Dallapiccola. 

Quanto al 'caso' Casella, mio padre, dopo il voltafaccia di Casella, già fascista diciamo, che aveva pubblicato un articolo pesantissimo contro l'avanguardia musicale su 'Musical America’, scrisse un articolo molto duro contro di lui, con una punta di ironica presa in giro del Casella difensore delle cose italiane e delle glorie romane. Per mio padre che stimava tanto Casella e al quale era riconoscente per la sua azione nei confronti della musica moderna, fu un colpo duro. Vlad mi ha raccontato che quando arrivò al Conservatorio di Roma e gli mostrò le musiche che suonava, comprese quelle di mio padre, Casella gli disse: io sono neoclassico, ma lei continui pure a scrivere le musiche come vuole. Poi, fra gli anni Cinquanta e Settanta in Italia si registrano moltissime esecuzioni della sua musica; molte ricerche di autorevoli studiosi... fino alle esecuzioni recentissime di Barenboim alla Scala; alcuni scritti di mio padre sono usciti in Italia (Rognoni se ne fece carico), prima che in America o in Germania. 

Spero di portare in Italia la mostra di Vienna, aperta fino a gennaio. Stanno cercando i fondi necessari per organizzare una lunga manifestazione dedicata a Schoenberg. Claudio Abbado è fra i promotori. @

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