martedì 13 ottobre 2020

Emanuele Arciuli che la musica d'oggi la suona regolarmente, ora prova anche a scriverne: la musica classica non è una lingua morta, ma il mondo della musica sta diventando di una noia mortale ( da La Repubblica, di Antonio Di Giacomo) epubblica, dia

 Non è cosa comune un pianista che scriva libri. Ma Emanuele Arciuli non è solo l'apprezzato pianista che tutti sanno, bensì un raffinato umanista che ha la sensibilità di non restare arroccato in una torre d'avorio. Sicché, oltre il suo scrivere per gli addetti ai lavori o per il pubblico dei melomani, si pone ora il problema della divulgazione. Circostanza che, nel caso di Arciuli, non vuol certo dire banalizzare. Nasce allora con questi presupposti il suo pamphlet La bellezza della nuova musica ( pp. 80; 11,50 euro), dal 15 ottobre nelle librerie per le edizioni Dedalo che l'hanno voluto nella nuova collana Le grandi voci. " Essere pianista e musicista - riflette Arciuli - in un sistema culturale indifferente alla musica colta, soprattutto alla sua produzione più attuale, sembra una sfida persa in partenza. Penso sia, invece, una scommessa da vincere: c'è un pubblico potenzialmente vasto, curioso di ascoltare ciò che si compone oggi". Col risultato, a lettura avvenuta, che a comporsi è un plausibile manifesto che, una dietro l'altra, inanella una serie di buone ragioni per mettersi in ascolto della musica classica contemporanea.

Emanuele Arciuli, nel suo pamphlet osserva che "per gran parte del pubblico la musica contemporanea è un insieme indistinto di dissonanze". Da cosa scaturisce questo equivoco?

"Beh, non è del tutto un equivoco: la musica colta della seconda metà del Novecento, e anche quella del primo scorcio del XXI secolo, è ricchissima di dissonanze e povera di riferimenti familiari per l'ascoltatore. Una vertigine che può affascinare o atterrire. Però, già a partire dagli anni Settanta, la musica colta ha cominciato a guardare ad altro - la world music, il pop, il rock, il jazz - e a ritrovare immediatezza comunicativa senza rinunciare alla qualità del pensiero. E questo, va detto, soprattutto nei paesi anglosassoni (negli Stati Uniti in primis). Ma l'idea che la "contemporanea" fosse una musica ostica e impenetrabile aveva già attecchito ed è difficile sradicarla".

Ancora fra le pagine del libro osserva che "la musica delle avanguardie storiche ha perso il contatto col pubblico". Come è accaduto?

"Era, in qualche maniera, una musica "contro": contro il sistema, contro la borghesia, contro le convenzioni. E non c'è dubbio che abbia raggiunto dei livelli di protervia piuttosto significativi. Però, riascoltando oggi alcune opere degli anni eroici dell'avanguardia, se ne coglie la qualità, e proviamo quasi nostalgia per quell'utopia che, naturalmente, non si è realizzata".

Tutta colpa delle avanguardie, allora?

"L'avanguardia non è una truppa in servizio permanente effettivo. Il problema è, semmai, la scarsa voglia di tanti direttori artistici - anche di stagioni di musica contemporanea - di capire, o meglio di far capire al pubblico, che la guerra è finita, e la musica che si scrive oggi è il luogo della varietà, della differenza, della eterogeneità".

Come può invece la musica classica contemporanea tessere un dialogo nuovo col pubblico?

"Innanzitutto non cercando solo conferme e conforto nella reazione del pubblico tradizionale, quello che già frequenta i concerti e che, spesso, preferisce riascoltare ciò che già conosce piuttosto che scoprire quello che non conosce ancora.

Inseguire il pubblico non è quasi mai una buona idea, è il pubblico che deve inseguire la musica. E poi aprendo le stagioni di musica contemporanea alla musica davvero di oggi (non è raro nei festival, non solo italiani, imbattersi in proposte che in realtà continuano a perpetrare la stessa "contemporanea" di cinquant'anni fa)".

La musica classica agli occhi dei più continua tuttavia per essere considerata come un affare del passato. Come può dinanzi a questo dato di fatto la musica classica contemporanea rivendicare spazi e dignità di ascolto?

"La musica classica non è una lingua morta. Mozart, Beethoven, Mahler e Chopin hanno senso, oggi, proprio perché si iscrivono in un flusso che prosegue incessante. Senza la musica di oggi manca la necessaria prospettiva per dare valore autentico anche alla musica del passato, e viceversa".

Citando Baricco ci ricorda che Beethoven è diventato un brand. E ancora ci rivela che, pure per lei, "il mondo della musica sta diventando di una noia mortale". Perché?

"Perché è un rito che si ripete, un po' stancamente. E perché manca una conoscenza del linguaggio, che sostanzialmente priva il pubblico di una parte importante del piacere dell'ascolto".

Ma l'amare il minimalismo e il postminimalismo è davvero un motivo per rompere un'amicizia fra musicisti, come annota sul filo dell'ironia nel libro?

"Beh, ovviamente la mia è un'iperbole, però in Italia c'è ancora molto sussiego nei confronti del minimalismo e del postminimalismo. Non da parte del pubblico, sia chiaro. E, devo dire, molti pregiudizi li trovo proprio fra i cosiddetti "specialisti"".

Per un pianista come lei che ama la musica classica contemporanea è ancora difficile trovare teatri e festival disposti ad accogliere le sue proposte?

"Meno di una volta, naturalmente. Però la resistenza c'è sempre. Soprattutto è difficile spiegare che la musica è una sola, e il saper suonare e fare musica (fatti salvi i gusti e le predilezioni di ciascuno) non dovrebbe avere steccati. Ecco perché mi piace proporre la musica di oggi in programmi che contengono anche musica del passato. Che per me è altrettanto fondamentale, e sulla quale penso di avere delle cose da dire".

I suoi consigli d'ascolto per iniziare un viaggio di scoperta della musica classica contemporanea?

"Il mio libro contiene, su idea dell'editore, dei codici QR che consentono, avvicinando uno smartphone alla pagina, di ascoltare i brani di cui scrivo. Ce ne sono almeno una trentina, da John Cage e György Ligeti a Michael Daugherty e Ted Hearne. Non priviamo, dunque, il lettore del piacere della sorpres

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