mercoledì 10 luglio 2024

Orban, che ci fa in una Europa di cui non condivide i principi? Giusta domanda. (da Avvenire, di Giorgio Ferrari)

 


Ma che ci fa Orbán in un'Europa di cui non condivide i principi?

Non appena ha fondato il gruppo di estrema destra dei “Patrioti”, Viktor Orbán è volato a Mosca, primo e unico leader occidentale ad avere avuto un abboccamento con Vladimir Putin dal giorno infausto di febbraio dell’invasione dell’Ucraina nel 2022. Mosca, e prima Kiev, e poi Pechino. Una scorreria da globetrotter della diplomazia – solo il segretario di Stato americano Antony Blinken nei suoi infruttuosi e molteplici tentativi di far sedere a un tavolo di trattative Netanyahu e Hamas gli sta alla pari –, che sul piano teorico potrebbe apparire lodevole. Chi si tirerebbe indietro se sapesse di poter ragionare di tregua, di negoziato e alla fine di cessazione delle ostilità e di pace nel martoriato campo di battaglia che oppone la Russia e l’Ucraina? Anche Erdogan di quando in quando ci prova, per non dire dei silenziosi sforzi della Santa Sede.

Ma Orbán? A che titolo sta parlando? Parla come primus inter pares dei “Patrioti”? Parla come presidente di turno del Consiglio Europeo? O semplicemente parla a titolo personale, premier d’Ungheria, amico della Russia contrario alle sanzioni, all’invio di armi, alla piattaforma difensiva della Nato (che giusto ieri apriva a Washington il 75mo summit dell’Alleanza), di cui pure fa parte?

Il post che ha pubblicato su “X” (l’ex twitter), parla di “Peace Mission 3.0”, ma è firmato con l’hashtag HU24EU, che sta per Ungheria 2024-Unione Europea. Dunque, Orbán intendeva compiere questi viaggi a nome dell’Europa. Ma che cosa aveva da proporre a Putin? Qualcosa che due settimane prima nell’incontro di Astana in Kazakistan i due amici fraterni (così entrambi si proclamano) non si erano detti? Per la verità qualcosa di nuovo Orbán lo ha reso pubblico: la convinzione che «i russi non perderanno mai la guerra in Ucraina, soprattutto perché Vladimir Putin sa come vincerla». Parole di fulgida propaganda, meglio ancora di quelle di un portavoce come Peskov o di un fedelissimo intoccabile come il ministro Lavrov.

Forse per questo Xi Jinping ha elogiato «l’indipendenza dell’Ungheria nei confronti delle pressioni occidentali». Ecco, forse la chiave di tutto sta qui. A giudizio di Viktor Orbán, l’Ungheria non appartiene all’Europa, ma solo a sé stessa. È un’enclave linguistica e geografica che con l’Occidente liberale, con le democrazie parlamentari nate dalle rivoluzioni e dall’architettura geopolitica scaturita dalla pace di Westfalia sembra aver poco a che fare. Non tutti a Budapest la pensano così, ma la politica del leader magiaro non fa che confermarlo. Mentre le armate di Putin bombardavano l’ospedale pediatrico di Kiev, Orbán firmava vantaggiosi accordi commerciali con la Cina. Nel contempo reclamizzava il semestre di presidenza europeo appena iniziato con uno slogan che mette i brividi: “Make Europe Great Again”: un vaso di Pandora della destra estrema forte di 84 parlamentari (terza forza politica, dopo il Ppe e i socialisti), che Orbán ha abilmente confezionato, strappando perfino gli spagnoli di Vox ai conservatori e strizzando l’occhiolino a Donald Trump, «un uomo di pace in cui ho fiducia», in attesa che la sorte gli sia benefica e venga rieletto.

Come giudicarlo? Per ora Orbán si è distinto per la confusione generata operando come leader di un singolo Paese e a nome – ma senza mandato – della presidenza della Ue. Scommettiamolo: i 27 lo rampogneranno, invitandolo alla moderazione. Lui farà finta di capire e continuerà a fare di testa sua. Viktor Orbán, l’uomo dei veti, è tutto qui. Abile, spregiudicato, e soprattutto eternamente diffidente nei confronti dell’Europa, che guarda con il medesimo sospetto di Putin, attratto dalla sua ricchezza e insieme disgustato da quella che ai suoi occhi appare come «la strutturale debolezza delle democrazie». Tanto da rendere legittima una domanda che molti si fanno: ma cosa ci sta a fare l’Ungheria di un autocrate illiberale, nazionalista e xenofobo come lui dentro l’Unione Europea? E soprattutto, quali danni può continuare a fare a un’Europa non sempre unanime sulle sue strategie?

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