martedì 5 febbraio 2019

Chi può impedire ad Alessandro Travaglio, figlio di Marco, di fare il rapper, con il nome d'arte TRAVA?

Nessuno può impedirglielo, né qualcuno glielo sta impedendo. TRAVA - che  appartiene alla già lunga schiera di giovani 'contro' che praticano lo stile musicale(?) del RAP, e che si distinguono per testi di 'protesta' in rima, su una musica 'che non c'è', accompagnato da quel gesto della mano che simulerebbe ai nostri occhi miopi una specie di 'pistola', ma che forse pistola non è  - può fare tutta la carriera che vuole, meritandosela.

 Ma allora ci sarebbe qualcosa  da ridire qualora Freccero per il nuovo programma che partirà su Rai 2 a metà di questo mese, affidato a Sortino, scegliesse come sigla proprio una scritta, addirittura appositamente, da TRAVA?

Sì, ci sarebbe da ridire, e non perchè i figli d'arte non possano far carriera, anche in campi diversi da quelli del genitore, ma perchè non è 'carino'  - diciamo così - che la facciano in terreni  nei quali i padri, meritandoselo, hanno già  mietuto per sè e per la famiglia, ma che non appartengono ad aziende di famiglia, dove il passaggio di padre in figlio del potere, oltre che della proprietà si verifica sì, ma non con troppa frequenza. perché i padri temono  che la prosperità costruita con anni di sacrifici possa essere distrutta da certi eredi, e perciò preferiscono trasferire la proprietà ma non la gestione.

 Nel caso del TRAVA - che si è imposto di recente in un talent e che forse, anzi sicuramente farà carriera, visti i gusti dei tempi nostri - una sua sigla  nella rete dove è arrivato Freccero per designazione dei Cinquestelle, che è il Movimento che il giornale del babbo  (Il Fatto) sostiene e fiancheggia senza pudore,  come anche Freccero a Rai 2, sarebbe inopportuna.

 Come inopportuni sono parsi, in passato, e noi lo abbiamo sempre denunciato, i casi di Salvo Nastasi che per trovare lavoro a sua moglie, Giulia Minoli - non l'ultima arrivata, ma  la figlia di Giovanni e Matilde Bernabei -  non lo cerca nella azienda di famiglia, la LUX, ma al Teatro San Carlo, dove era commissario del governo, e dove aveva  creato dal nulla un Museo che, secondo le malelingue, era stato fatto per trovare posto a sua moglie. Tutto normale per una giovane donna che  non aveva, per giunta, mai prima fatto quel lavoro? No,  vergognoso. E, infatti la ragazza, retribuita  con la modica cifra di 6.000 Euro mensili (se ricordiamo bene) non appena la storia divenne di dominio pubblico fu costretta a lasciare l'incairico a tornare a gambe levate a Roma.

 Come non è altrettanto vergognoso il caso di Chiara Muti, attrice anche brava che, da quando ha intrapreso la carriera di regista, il babbo Riccardo vuole Lei come regista ovunque venga invitato a dirigere un opera;  e che  anche la madre, Cristina, la scritturi  nel suo festival a Ravenna? Almeno l'altro figlio amministra l'azienda di famiglia, ma Riccardo Muti e Cristina Muti  nei loro rispettivi ambiti di lavoro, usufruiscono di finanziamenti pubblici, che non possono essere amministrati come fossero soldi propri, dei quali  uno può fare ciò che vuole. Sta qui la differenza, non da poco.

 E siccome non vogliamo dare l'impressione che vediamo da un occhio solo mentre l'altro lo teniamo volutamente chiuso, in passato abbiamo segnalato l'analogo caso di Claudio Abbado  che prese a lavorare con sé, ma in attività che godevano di  finanziamenti pubblici , sua figlia Alessandra, che divenne manager dei Berliner Philharmoniker  per le tournée del padre in Italia, e suo figlio Daniele, regista che in occasione delle suddette tournée  dei Berliner seguiva a breve distanza i teatri toccati dal padre, con le sue regie.
In quegli anni dirigevamo il mensile Applausi ed una volta ci siamo presi la briga di seguire i  percorsi paralleli, ma distanziati di poco, per decenza, di padre e figlio.
E del resto, è cosa altrettanto nota come Daniele abbia precedentemente lavorato a Berlino, quando il padre montò l'operazione sull'Alexander Nevsky con le musiche di Prokofiev. Non c'erano registi a Berlino?  Ed era normale che  si portase appresso anche un suo cugino, sconosciuto, Michele dall'Ongaro, al quale chiedemmo per l'occasione di  illustrare  quel progetto berlinese, scrivendone per Piano Time, di cui eravamo direttore? Qualche volta, ripensando a certi casi, vorremmo morderci i gomiti.

Concludendo, se perfino Nastasi per Giulia Minoli, Muti e consorte per la figlia, ed Abbado per i figli  (ma gli esempi potrebbero continuare all'infinito) sono costretti a trovare loro lavoro, vuol dire che siamo messi molto male, e che il lavoro - che uno dovrebbe cercarsi da solo, senza aiuti sospetti e a scapito di coloro, pur meritevoli, che non nascono da lombi celebri e potenti - non c'è. Ma si può creare se serve, in barba  al popolo disoccupato.

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