Fatevi dare gli arretrati! Ma prima di spiegare il perché di questo incoraggiamento rivolto a milioni di dipendenti delle aziende italiane, occorre fare un piccolo balzo nella Storia. La grande questione dei salari dominò gli anni Settanta. Nel bene e nel male. Nel bene perché consentì al Paese di ridurre le disuguaglianze, affermare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori (ma all’epoca non vi era questa sensibilità di genere) e dimostrare, pur nel pieno di una stagione rovente di lotte sindacali, che la cultura del lavoro e la centralità della fabbrica erano un fattore di unità nazionale. La sconfitta del terrorismo nacque da questa alleanza democratica che consentì di prosciugare una paludosa zona grigia di indifferenza e persino complicità con il terrorismo. Nel male perché si arrivò a teorizzare che il salario fosse una variabile indipendente, a disprezzare il valore della competitività. Si era anche obnubilati da continue svalutazioni della lira mentre cresceva inavvertita la montagna del debito pubblico.
Luciano Lama, segretario della Cgil, ammetterà con la svolta dell’Eur di aver compiuto, nel considerare il salario una variabile indipendente, un «errore concettuale». E, in una intervista a Eugenio Scalfari su La Repubblica del 24 gennaio 1978, chiese addirittura ai lavoratori di «tirare la cinghia». Un’eresia sindacale ma una grande prova di responsabilità nazionale. Quel monito, nonostante non ci sia nulla da «tirare», si potrebbe rivolgere oggi a imprenditori e azionisti? Se ben guardiamo, il salario è diventato in questi anni una variabile talmente modesta da risultare assolutamente indipendente rispetto all’andamento dell’economia. L’Italia è l’unico Paese dell’Ocse, l’Organizzazione che riunisce le economie industriali, ad aver diminuito in termini reali le retribuzioni. È accaduto cioè esattamente l’opposto di quell’assunto alla base, negli anni Settanta, della cosiddetta epoca della “conflittualità permanente”, poi stemperata da Lama nel periodo della solidarietà nazionale e dell’austerità.
Il contrappasso è feroce e ingiusto. Non c’è più nessuno che si lamenta del costo del lavoro, bensì di non trovare profili professionali o semplicemente persone da formare. Nel secolo scorso l’alta inflazione si accompagnava a un elevato tasso di disoccupazione. La differenza con i nostri giorni è abissale.
L’Osservatorio delle Imprese della Sapienza ha appena pubblicato uno studio su «Dinamica dei redditi, recenti squilibri nell’industria italiana», a cura di Stefano Bellomo, Giuseppe Croce, Giulio Di Gravio, Riccardo Gallo e Mauro Gatti. Ne risulta un quadro interessante che farà certamente discutere. Anche perché dei quasi sei milioni di lavoratori dipendenti di aziende che aderiscono a Confindustria, il 53 per cento ha un contratto scaduto da 12 mesi, il 10 per cento da oltre due anni, il 13 per cento lo vedrà esaurirsi entro il 2024.
Si apre un’ampia stagione di rinnovi che avverranno con un’inflazione modesta, produzione industriale in ribasso da diversi mesi e crescita del Paese inferiore alle attese. Tutte condizioni che suggerirebbero almeno una certa moderazione salariale. Però, dobbiamo vedere che cosa è successo tra il 2020 e il 2023. Gallo ha elaborato i dati Mediobanca ed è arrivato a queste conclusioni: «Nel 2023 il fatturato delle società industriali medie e grandi è stato, anche per effetto dell’inflazione, del 34 per cento superiore a quello del 2019. Anche il valore aggiunto è cresciuto del 33 per cento. Con una fortissima distorsione nella sua distribuzione. Ammortamenti, oneri finanziari e oneri fiscali hanno mantenuto più o meno il loro peso, ma la quota di valore aggiunto che ha remunerato il lavoro è calata di ben 12 punti tra il 2020 e il 2023 mentre quella dell’utile netto è aumentata di 14 punti».
Ora bisogna essere chiari. Andamenti di questo tipo sono stati ciclicamente frequenti. E se vogliamo attrarre investitori dall’estero e mobilitare l’interesse di grandi fondi specializzati — in particolare con la transizione ecologica e digitale e la grande fame di equity — la redditività delle imprese e il grado di remunerazione dei propri soci sono fondamentali, soprattutto in relazione a quello che avviene in altri mercati. Ma dalle conclusioni dello studio della Sapienza, emerge che i soci, negli ultimi quattro anni, hanno privilegiato soprattutto sé stessi. Hanno reinvestito nelle loro società solo il 20 per cento degli utili netti, il resto è andato tutto in dividendi, ed è finito altrove, magari in altre attività economie o, molto più probabilmente, a ingrossare patrimoni. È diversificazione o disaffezione? Il dibattito è aperto. Non c’è in questo dato qualche elemento critico che possa spiegare, in alcuni casi, la bassa competitività del sistema?
La risibile dinamica delle retribuzioni orarie è spiegata, da Giuseppe Croce, con le difficoltà della contrattazione collettiva, ma anche e soprattutto a causa degli ostacoli alla mobilità del lavoro, dell’eccessivo costo degli affitti, della bassa qualità delle politiche attive e dal mismatch tra competenze offerte e richieste delle aziende. Se molti giovani laureati se ne vanno all’estero è anche perché non vi è una domanda adeguata, da parte delle imprese, di profili elevati. Mauro Gatti imputa i bassi salari anche alla scarsa innovazione organizzativa (lo smart working ha più detrattori che sostenitori). Una cura più attenta e professionale delle risorse umane accresce la produttività del lavoro e di conseguenza le retribuzioni. Stefano Bellomo sostiene che è giunto il momento di far partecipare di più i dipendenti ai destini aziendali (il cavallo di battaglia della Cisl) anche con una condivisione degli utili, ma soprattutto sciogliere il nodo della rappresentatività dei sindacati nella contrattazione collettiva. Trasformazione digitale, intelligenza artificiale, hyperautomation sono fattori-chiave dello sviluppo. L’ansia — e lo spiega bene Giulio Di Gravio — è oggi più regolatoria che pionieristica. Si temono i rischi, non si inseguono tutte le opportunità. Materie che saranno centrali nelle trattative della prossima grande ondata di rinnovi contrattuali. Ma, in ogni caso, care lavoratrici e lavoratori, fatevi dare gli arretrati!
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