La polvere prima o poi si depositerà sulle angosce del ministero della Cultura e, spazzata la polvere, la destra dovrà interrogarsi sulle sue ambizioni in materia. Egemonia culturale, egemonia italiana, Dante padre comune, Antonio Gramsci cugino prediletto, ma poi cosa, oltre le citazioni? Le traversie del Collegio Romano (ma non solo) ci consegnano un profilo molto preciso dell’egemonia reale esercitata in conto destra, perché nell’attesa che il grande disegno si realizzi c’è già un racconto che si è imposto su tutti e determina cose: quello del fondamentalismo cattolico stile Pro Vita e famiglia, degli integralisti alla Simone Pillon.
È quello il mondo che esce vincitore dal braccio di ferro sull’ex capo di gabinetto Francesco Spano, iniziato il giorno dopo la sua nomina e culminato nelle reazioni alle anticipazioni dell’inchiesta di Report. Considera, giustamente, le dimissioni dell’alto funzionario una sua specifica vittoria culturale. Pretende le scuse del ministro Alessandro Giuli agli elettori del centrodestra per «una vicenda politica indecente gestita in modo fallimentare». Non tollereremo altri cedimenti del governo, dice, e la minaccia ha un suo peso. Gli stessi soggetti l’anno scorso affondarono l’atto eretico di Giuseppe Valditara (aveva chiamato Maria Paola Concia nel progetto scolastico «Educare alle relazioni») con una petizione che fece saltare tutto: 30mila firme, Concia cassata, cassate pure suor Monia Alfieri e la giurista Paola Maria Zerman, vicina al Popolo della Famiglia, che avevano accettato di lavorare con una lesbica dichiarata.
Il potere culturale di quella minoranza è fuori discussione. Non solo vigilano e sanzionano: fanno scuola e opinione. Quando un dirigente locale di FdI usa in chat la parola «pederasta» per definire Spano e si giustifica dicendo che ha dato voce agli umori della base, dovrebbe aprirsi una galassia di interrogativi sulle fonti che formano le coscienze dei militanti, siti integralisti, gruppi fanatici, confraternite conservatrici che lavorano in silenzio contro il principio di laicità e contro la stessa Chiesa ufficiale. Dovrebbe, ma succede il contrario e si cerca piuttosto il conforto della tiritera: ecco, sono i soliti cecchini della solita sinistra, sparano su di noi per la rabbia di aver dovuto consegnare ad altri i milioni e milioni su cui hanno fondato il loro potere culturale.
Eppure solo due anni fa, nel suo discorso di insediamento, Giorgia Meloni sembrava aver preso un’altra direzione. In apertura citò per nome, quasi confidenzialmente, un lungo elenco di «donne che hanno osato, per impeto, per ragione o per amore», la nobildonna editrice di giornali rivoluzionari, la pedagogista ribelle, la partigiana che fu prima ministra donna, le giornaliste uccise sul campo, la comunista che per prima guidò la Camera dei deputati, e sembrò un invito ad attraversare le linee dell’ideologia in nome, appunto, di un’egemonia italiana a tutto tondo, per di più al femminile. Quella suggestione non ha avuto seguito, anzi è successo il contrario. Il nocciolo del caso Mic, del caso Spano, del caso Giuli, è proprio la sanzione all’idea di aprire un varco nella barriera che divide il «noi e loro», la destra e la sinistra, i normali e i non-normali (secondo l’orrenda distinzione vannacciana). «Quello che ai nostri non è andato giù – è la linea dettata ieri dalle fonti di FdI alle agenzie – è il fatto che Spano fosse legato a un mondo che non è il nostro». Amen.
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