lunedì 14 ottobre 2024

I professori in Italia sono umiliati anche dagli stipendi da fame. Eppure svolgono un lavoro delicatissimo ed importante (da La Stampa)

 È un mestiere delicato, importante come pochi altri. Soprattutto è il mestiere che esige più lungimiranza, cioè un’attitudine che, giorno per giorno, dovrebbe farti guardare al futuro: provare a immaginarlo, a immaginare come costruirlo. A pensare come sarà il mondo quando non ci sarai più tu. Fare l’insegnante è, dovrebbe essere tutto questo, perché significa preparare al mondo le giovani generazioni, fornire loro gli strumenti per diventare adulti in un mondo che sarà diverso da quello presente. Non è questione tanto di vocazione, nel senso che insegnanti si diventa senza necessariamente nascere con questa missione in testa. È questione di una responsabilità immensa, bellissima e non di rado molto faticosa.

Malgrado tutto questo, i dati Ocse appena pubblicati ci dicono che gli stipendi dei nostri insegnanti sono «incredibilmente più bassi, praticamente rispetto a tutto il resto del mondo». L’Italia destina all’istruzione il 4% del Pil contro una media del 5% degli altri paesi d’area Ocse, cioè “avanzati”. Tanti altri sono i dati, pressoché tutti desolanti per noi, del rapporto Ocse, come ha segnalato la deputata Isabella Del Monte di Italia Viva. Abbiamo ad esempio il poco invidiabile maggior divario retributivo di genere dell’area Ocse, nonostante l’evidenza che le donne ottengono migliori risultati nel loro percorso scolastico. E il divario si sta ampliando, invece di assottigliarsi. È, insomma, un quadro della situazione piuttosto triste, che soprattutto non pare dar segni di miglioramento, anzi.

In tale contesto, il “peccato originale” è proprio quello del valore che l’insegnamento ha in Italia, della percezione che la gente ha della categoria di persone cui affida la formazione dei propri figli. L’insegnante è ormai nella grande maggioranza dei casi colui dal quale si va a protestare perché ha assegnato un voto troppo basso a tuo figlio, perché non ha spiegato la lezione come avrebbe dovuto e dunque tua figlia ha sbagliato la versione di latino. Si è perduta quella fiducia nel corpo insegnante che era il presupposto per lasciare in classe i propri figli e consegnarli all’iter scolastico. Ma questa perdita, forse, è il frutto più di un’idea di genitorialità fondata esclusivamente sul principio di protezione incondizionata della prole che delle carenze dei docenti. Ed è un principio molto scivoloso, spesso controproducente.

Ovvio che i figli non vanno mandati allo sbaraglio sempre e comunque. Ma la scuola è per loro il primo, cruciale ingresso nel mondo sociale ed è qui che imparano ad osservare e affrontare i delicati equilibri che la vita ti impone continuamente. In parole povere: scuola significa anche avversità, cose che non vanno come vuoi, inciampi ed errori. La (troppo) assidua partecipazione dei genitori alla scuola e l’incondizionata difesa dei figli nuoce in primo luogo a questi ultimi. E scredita una professione bellissima ma impegnativa, a volte impervia. C’è forse anche questo a monte del fatto che i nostri insegnanti sono così indecorosamente pagati, cioè così poco stimati in una scala di valori che non è soltanto economica.

Perché poi, quando si dice che saranno pure sottopagati ma si fanno tre mesi di vacanze estive e lavorano solo al mattino, si fa finta di sapere che non è questione di tempo “calendarizzato” ma di quello percepito, e che percepiremmo tutti dentro un’aula di scuola, dove un’ora di lezione vera e propria è un concentrato di impegno, attenzione ed esercizio di una responsabilità immensa verso i propri studenti e la società tutta. E che un insegnante vero non smette mai di studiare, quando non è in classe a fare lezione.

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