“La competitività oggi è sempre meno relativa ai costi del lavoro e molto basata sulle conoscenze e sulle skill che sono incorporate nelle forze di lavoro”. È una affermazione contenuta nel Rapporto sul “Futuro della competitività europea” di Mario Draghi presentato a settembre scorso.
Nello stesso Rapporto si sottolinea lo stretto nesso tra competitività e produttività osservando che l’economia europea negli ultimi due decenni ha registrato un tasso di incremento della produttività sistematicamente inferiore a quello degli Stati Uniti: circa il 70% della crescente differenza di Pil pro-capite tra le due aree (oggi del 34%) è dovuta alla minore produttività europea.
Ritorna quindi con forza la questione della crescita della produttività e la necessità di investire in ricerca e innovazione per aumentarla. E se questa è la situazione europea da noi siamo messi anche peggio, visto che in Italia l’aumento medio annuo della produttività del lavoro nel lungo periodo (2014-2022) è stato dello 0,5%, contro una media europea dell’1,3%.
Indubbiamente abbiamo fatto recenti importanti progressi, anche grazie alla forte espansione degli investimenti in tecnologie digitali incentivati dai provvedimenti di sostegno pubblico dal 2016, ma la questione permane. Occorre ulteriormente investire, ma dove? Ce lo dice (tra gli altri) Mario Draghi: la crescita è sempre più collegata con gli investimenti in capitale intangibile, ossia nel capitale innovativo-tecnologico (ricerca e sviluppo, software, ecc…) e nel capitale organizzativo-manageriale (modelli operativi, pratiche di gestione, ecc..). Entrambi sono assolutamente indispensabili. Alcune recenti elaborazioni condotte insieme a Marco Pini, Marco Gentile e Domenico Bognoni dell’Istituto Tagliacarne mostrano la relazione tra le due forme di capitale e il tasso di crescita del Pil.
Una prima evidenza è la bassa relazione tra crescita degli investimenti in beni materiali e tasso di incremento del Pil, che viene guidata dalle due forme di capitale intangibile. Tra queste a partire dal 2014 l’investimento conoscitivo-tecnologico è stato superiore a quello nel capitale organizzativo-manageriale che interviene sulle modalità operative e strategiche della gestione aziendale. Tuttavia la correlazione tra quest’ultima forma di capitale è superiore a quella dell’impiego nelle tecnologie e comunque le due forme sono molto legate tra loro, nel senso che si valorizzano congiuntamente.
I cosiddetti asset intangibili sono quindi uno dei principali booster della crescita, molto di più - negli anni recenti - rispetto agli investimenti fisici. Ma la crescita degli intangibili è strettamente legata a quella del capitale umano, in tutte le sue forme e in particolare in quelle conoscitive e manageriali. Da questo punto di vista non siamo messi benissimo perché il nostro Paese si trova al 19esimo posto in Europa secondo un indicatore che misura la qualità delle competenze manageriali.
Si pone una domanda al riguardo, sempre più frequente oggi che le aziende dichiarano difficoltà a trovare personale adeguato ai loro processi produttivi: quanto sono attrattive le nostre imprese per queste forme di capitale? L’attrattività del lavoro è data da molti fattori, di ordine economico e di ordine motivazionale e questi ultimi, come dimostrano diverse indagini, sono crescenti per le giovani generazioni. Ma queste stesse indagini evidenziano anche che la motivazione economica non è assolutamente secondaria, ha un rilievo importante, soprattutto via via che si chiede una maggiore mobilità lavorativo-territoriale. I recenti dati di Almalaurea ci dicono che a un anno dalla laurea, i professionisti all’estero guadagnano mediamente 2.174 euro netti al mese, con un incremento del 56,1% rispetto ai 1.393 euro percepiti in Italia. Dopo cinque anni, il divario si amplia ulteriormente, con stipendi medi di 2.710 euro fuori del Paese (+58,7%) rispetto ai 1.708 euro in Italia. Una bella differenza! Certo si tratta di dati medi ma fanno indubbiamente riflettere, soprattutto tenuto conto che le fiammate inflazionistiche degli ultimi anni hanno ridotto parecchio le retribuzioni in termini reali. Così può non stupire che siamo il quinto paese in Europa per difficoltà a trattenere talenti.
Si potrebbe dire: ma dinanzi a una crescita della produttività del lavoro più bassa non possiamo pagare di più. Una tesi molto diffusa è quella che le nostre retribuzioni possono crescere, ma prima deve aumentare la produttività del lavoro. Tuttavia questa tesi non considera che la crescita qualitativa del capitale umano è un investimento immateriale al pari degli altri e a sua volta migliora la produttività del lavoro. Ce lo dice una rilevazione dell’Istituto Tagliacarne secondo la quale le imprese che adottano iniziative di vario genere, incluso l’aumento retributivo, per trattenere i loro talenti hanno una produttività superiore di circa il 10% rispetto alle altre.
Il punto è che, come ci ricorda il Premio Nobel per l’economia Edmund Phelps, abbiamo sempre più bisogno di “innovazione indigena” per avere una “società fiorente” e questo tipo di innovazione è legata alle capacità e creatività dei dipendenti, alla soddisfazione e senso positivo del lavoro e ai valori delle persone.
Allora se vogliamo aumentare la produttività, e quindi la posizione competitiva, dobbiamo migliorare le condizioni del lavoro a partire da quelle economiche e naturalmente anche tutte le altre in termini di crescita e di prospettive lavorative, sociali e umane nei luoghi di lavoro.
Proprio perché, come ci ricorda lo stesso Draghi, pensare di competere sui costi del lavoro è una strategia perdente per l’Europa, ma in particolare per l’Italia.
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