martedì 3 maggio 2022

Teatro Regio di Parma a New York " per dare un futuro a Verdi" titola 'La Repubblica' Anna Maria Meo intervistata da Clotilde Veltri

 


Parla la direttrice del Teatro Regio: “E’ un’icona internazionale non un monumento da chiudere in una teca. Nostro dovere è tenere insieme la tradizione del territorio e l’orizzonte globale. Solo così lo salveremo dall’asfissia”

Giuseppe Verdi queer, vestito di un magico rosa shocking, apparso l’anno scorso su un invito per il Ballo in maschera del Teatro Regio di Parma – che tanto trambusto ha causato tra i leghisti – era opera sua. L’idea, baciata dal successo, di regalare una bottiglia di Franciacorta ai coraggiosi melomani stranieri disposti a spendere migliaia di euro per i palchi laterali, la cui posizione rispetto al palcoscenico li condanna a rimanere invenduti, pure. E poi i preziosi gadget verdiani realizzati con la stampante 3D e dalla sartoria del teatro da battere all’asta per raccogliere fondi o la app A life in music per i nativi digitali che in meno di tre anni ha catturato un milione di followers. Senza dimenticare l’Associazione dei Friends, facoltosi americani che sostengono a suon di dollari il “sistema Verdi” al cui centro c’è il Festival  “unico evento monografico dedicato al grande compositore nel mondo” che si svolge in autunno a Parma e di cui Anna Maria Meo è direttrice artistica.

Alla guida del Teatro Regio dal 2015, Meo è il tornado chiamato dal sindaco Federico Pizzarotti a dirigere un’istituzione che, dal 1829, ha il proprio Dna immerso nella tradizione. Dire che le polemiche non la scompongono non rende l’idea. Infatti ammette di guardare con simpatia – lei che vive a Firenze – alle contestatissime iniziative del direttore degli Uffizi Eike Schmidt – “un amico” – accusato di aprire il sancta sanctorum dei musei italiani a Chiara Ferragni e agli influencer. Spiega: “Giuseppe Verdi non è un monumento polveroso che va tenuto sotto una teca per paura di romperlo, piuttosto va provocato, innervato di quella modernità che tanto gli apparteneva e che lo ha reso l’icona che tutti noi amiamo e conosciamo”.
E allora dottoressa Meo partiamo dall’icona. Cosa rappresenta oggi Giuseppe Verdi in Italia e nel mondo? All’inizio della guerra in Ucraina il coro di Odessa ha voluto esprimere il proprio no alle bombe cantando in piazza il Nabucco …
“Verdi è il compositore più eseguito al mondo, è un artista il cui lavoro ha saputo garantire un’attualità del messaggio musicale e drammaturgico che non è scalfito dal tempo. Ed è giusto citare Odessa perché il coro del Nabucco è iconico e chi ha potuto credere dissennatamente di farlo diventare l’inno italiano ha commesso un errore, bisogna lasciargli il significato che Verdi gli ha assegnato quando lo ha composto”.

Va bene, ma l’anno scorso ne avete fatto un personaggio queer, non è davvero troppo?
“Ma la nostra è stata un’operazione fortemente legata alla realtà delle nuove generazioni, quelle che poi ci lamentiamo di non riuscire a portare a teatro. In occasione della messa in scena del Ballo in maschera, opera scritta per Guglielmo III sovrano dichiaratamente omosessuale, abbiamo chiesto agli under 30 di venire vestiti all’Ante generale (anteprima della prova generale, ndr) come meglio credevano, da uomo, da donna, da entrambi senza limiti, andando a intercettare il dibattito sul gender fluid. Attenzione però la cartolina “dello scandalo” era un gioco che aveva un fondamento nel contenuto dell’opera, mai pretestuoso o provocatorio. Ma questo non è stato capito e si è scatenato un putiferio tra coloro che credono di avere la proprietà intellettuale di Verdi”.

Restiamo sulle nuove generazioni. Avete lanciato, primo teatro a farlo, anche una app, un gioco digitale per giovani melomani che ruota intornio alla musica di Verdi…
“Si chiama A life in music e veleggiamo verso il milione di download, quasi tutti giovani. La cosa migliore di questa esperienza è che siamo riusciti a coniugare la tecnologia dei nerd, il loro linguaggio digitale e il comitato scientifico. E’ stata un confronto serratissimo, perché io e il comitato volevamo che i contenuti fossero assolutamente rigorosi. Alla fine però abbiamo ottenuto un prodotto che ha pari dignità con il resto della produzione verdiana, perché ne rispetta la dimensione filologica. Così ora abbiamo questa comunità internazionale di ragazzi che stanno scaricando il gioco dall’America alla Russia alla Cina. Una comunità che cresce e che meriterebbe anche un upgrade, lo faremo, non demordo”.
 

Il suo approccio ricorda tanto quello di Eike Schmidt agli Uffizi di Firenze…
“Lo apprezzo perché il tema è il mezzo, internet, i social, che non è buono o cattivo, dipende dall’uso che se ne fa. Non è che oggi possiamo mangiare come ai tempi della nonna, non si vive declinando le attività come se fossimo nell’800. Noi semplicemente abbiamo deciso di utilizzare questi strumenti e riempirli di contenuti che devono però sempre garantire la qualità e la filologia inattaccabile. Facendo così abbiamo nutrito una comunità che va molto oltre il range geografico localistico”.
A sentirla si direbbe abbastanza insofferente alle comunità locali…
“Assolutamente no. Il Regio di Parma è un grandissimo teatro con una grandissima tradizione locale ma tutto questo è anche un rischio, di asfissia, di ipoteca, di zavorra. La mia non è una guerra impavida contro i loggionisti. I loggionisti vanno stimolati per garantire una crescita culturale. E non è un caso che il teatro rimanga molto radicato, abbiamo un’occupazione della sala pari al 90 per cento, prima della pandemia la mappa dei posti era venduta al 100 per cento, cosa rarissima per un’istituzione teatrale, ma questo è il frutto del lavoro degli ultimi anni”.

Chiamiamola filosofia glocal per usare una brutta parola.
“Quando sono arrivata alla direzione del Regio nel 2015 il teatro incassava 600 mila euro e nel 2019, prima della pandemia, ne ha incassato quasi 1.4 milioni, 1.378 per la precisione. Entrate che provengono dalla biglietteria del Festival. Io ho sempre guardato oltre l’orizzonte locale, non disconosco il valore del pubblico locale tanto che ho mantenuto gli abbonamenti, ma ambisco a un’audience internazionale. Ecco perché faccio battaglie sfinenti, più faticose della flebo di glucosio che potrei somministrare per sopravvivere. Per dirle l’ultima recente polemica: i coristi sono scesi in piazza con un rito tribale perché la prossima stagione del festival sarà inaugurata dallo “straniero”, dal coro di Bologna. Ma secondo lei a Salisburgo si permetterebbero una cosa del genere? Ora noi al prossimo festival avremo Daniele Gatti con l’orchestra e il coro del Maggio fiorentino, l’orchestra della Rai diretta da Michele Mariotti, Roberto Abbado, il nostro direttore musicale, che dirigerà i complessi di Bologna, e loro che dicono? Vade retro barbari, tornate a casa vostra. Ma come si fa a pensare a Verdi con questa chiusura mentale…”.

 


Il sistema spettacolo e cultura ha molto sofferto durante la pandemia. Verdi però non si è fermato…
“Il Teatro Regio di Parma ha un modello gestionale molto snello come tutti i teatri di tradizione ma ovviamente ha dovuto fare i conti con il Covid che rischiava di lasciar a casa i tanti lavoratori stagionali ai quali noi, come istituzione pubblica, dobbiamo offrire un orizzonte, l’uscita dal precariato dei propri lavoratori è un obbligo morale, parlo di fonici, macchinisti, sarte, che con il covid sono stati i primi a pagare. Così abbiamo deciso di trasformare quello che era evento fatale in un’occasione. Innanzitutto ho creato il dipartimento della formazione, trasformando il teatro regio in una agenzia regionale con accesso ai fondi del fondo sociale europeo, quindi abbiamo creato una scuola di interpretazione dei testi verdiani, quasi un obbligo per il festival unico al mondo dedicato a Verdi. Poi abbiamo pensato quali fossero i mestieri a rischio estinzione, così è nata l’accademia di sartoria, ora inaugureremo l’accademia dei macchinisti, nel frattempo abbiamo creato l’accademia vocale per i bambini. Un universo che produce e tramanda ricchezza e saperi. Abbiamo anche investito nell’aggiornamento dei nostri dipendenti”.


Di quanti lavoratori parliamo?
“Tra indeterminati e stagionali sfioriamo i duecento. La nostra è stata un’operazione politica perché le istituzioni fanno politica. Quando c’è stato il lockdown, dopo il trauma, abbiamo deciso di investire invece di fermarci. Internamente, per esempio, abbiamo fatto il recupero di una sala prove che aveva bisogno di restauro e del sistema antincendio, avrei potuto appaltare i lavori fuori e invece noi abbiamo un giovane architetto bravissimo che ha realizzato il progetto e inostri macchinisti hanno ristrutturato la sala. Davanti al covid avremmo potuto alzare le mani e nessuno avrebbe detto bah, invece così, in controtendenza, abbiamo stabilizziamo le risorse, non come se fossero assistenza o come strumento di welfare improprio, inventando attività che rendano plausibile il nostro approccio”.

E vi siete guardati anche intorno, in particolare l’operazione americana e il Gala di New York, che obiettivo hanno? Raccogliere fondi?
“Cinque anni fa mi sono posta il problema di come creare una comunità allargata, soprattutto perché il festival ha avuto una crescita esponenziale. Abbiamo realizzato un osservatorio permanente ed è emerso che la redditività trainata dal festival del territorio parmense è cresciuta tantissimo, anche quella immateriale, dall’enogastronomia alla industria, a un livello che per i nostri sponsor privati era interessante. Ci tengo a dirlo: non ci siamo presentati dagli sponsor con il cappello in mano, ma abbiamo parlato il linguaggio delle imprese spiegando che investire sul teatro era conveniente perché aiutava a proiettare prestigio anche sulla loro immagine internazionale”.
 

Quindi avete dato vita all’Associazione dei Friends con base New York…
“Un’associazione che ottenesse la defiscalizzazione dei contributi erogati al Festival di Parma da parte dello stato americano, non è stato facile con Trump, ma alla fine ci siamo riusciti. E il risultato è un incremento dei fondi versati dai Friends al teatro del 20%. Anche durate il Covid hanno voluto testimoniare la loro solidarietà all’istituzione. A fine anno aspettiamo con trepidazione il bonifico che ci arriva dall’America perché i Friends versano una cifra superiore a quella di almeno uno dei nostri main sponsor locali”.

Chi sono esattamente i Friends? Facoltosi italo americani di seconda generazione?
“No, sono tutti privati che amano Verdi a tal punto da sostenere le spese non solo dell’Associazione, ma di eventi come il Gala di New York che invita uno chef tre stelle come Massimo Bottura in una venue prestigiosissima, con un battitore di Christie’s. Noi vogliamo promuovere il festival in America dove c’è un sistema di produzione teatrale importante e di grande ricchezza. Tra piccoli e grandi Friends si parla di un centinaio di persone facoltose e amanti dell’opera. Ci sono i membri del board che pagano per starci, ci sono i donatori che quando vengono al festival non solo pagano per ascoltare Verdi, ma pagano il viaggio, l’ospitalità. Vengono e dopo aver donato cifre cospicue hanno la consapevolezza che il primo segnale di sostegno è l’acquisto del biglietto al quale non cercano mai di sottrarsi, ma anzi ne vanno orgogliosi”.

Non mi dica che organizzate anche pacchetti turistici come un’agenzia di viaggio….
“Ma certo, organizziamo per loro un pacchetto esperienziale, li portiamo nelle case private, nelle aziende dell’enogastronomia o come Dallara che è nostro sponsor e ha macchine da corsa pazzesche. Cerchiamo di presentare il territorio al meglio. D’altra parte gli stranieri a sentire Verdi non vengono solo da New York o dalla California o da Boston, vengono da paesi che hanno una tradizione consolidata nell’opera, noi intercettiamo quel pubblico che magari va a Salisburgo e poi viene a Parma. Sono i globe trotter della lirica che una calendarizzazione attenta permette loro di prenotare anche per l’anno dopo. Ovviamente dopo che il pubblico di Parma ha sottoscritto gli abbonamenti con prelazione perché è giusto così. Per dirle il successo abbiamo avuto per importi prima fascia (platea e palchi centrali) cinque volte le richieste e così nel 2019 io e il capo segreteria messi sotto assedio da gente che voleva il posto a teatro abbiamo deciso di fare questa proposta: comprate i palchi laterali (sette posti), sacrificati, e noi vi offriamo una bottiglia di Franciacorta. Si sono buttati a pesce: europei che per una bottiglia di Franciacorta di 15 euro hanno pagato per i laterali 1050 euro di biglietti, senza fare un plissé, hanno pagato e mandato ringraziamenti come se glieli avessimo regalati e noi abbiamo venduto tutti i posti in pianta, riempiendo in teatro veramente. E per l’anno successivo hanno chiesto se eravamo così gentili da offrire la stessa proposta. Questo per dire che alla base di tutto c’è un progetto, una qualità artistica che gente così ci riconosce. Non parliamo di incolti, ma di profondi conoscitori dell’opera lirica, gente che va a Salisburgo, a Aix en Provence e poi viene a Parma e vuole trovare la qualità di un progetto all’altezza delle aspettative”.

Nessun commento:

Posta un commento