domenica 22 luglio 2018

Per Carlo Majer

Abbiamo appreso della morte prematura di Carlo Majer, ieri. Noi lo abbiamo incontrato sulla nostra strada, senza mai incontralo di persona. All'epoca in cui egli dirigeva il Teatro Regio di Torino - gli anni Novanta - chiamato dalla sovrintendente Tessore. Gli chiedemmo di collaborare ad una delle riviste che negli anni abbiamo progettato e diretto, Applausi, edito dalla Darpro srl di Udine. Una rivista patinata, con collaboratori tutti illustri - come è sempre stato per le riviste che abbiamo diretto (da Piano Time a Music@ ad Applausi) ma rivolta al grande pubblico. La rivista uscì per un triennio e Carlo Majer vi collaborò per il primo periodo
Non riusciamo a ricordare  come avvenne quell'incontro, puramente telefonico; al quale mai seguì un incontro di persona.  Per lui confezionammo  un' apposita rubrica, dal titolo Ouverture, in apertura di giornale.

 Avendo appreso della sua morte siamo andati a sfogliare la collezione, purtroppo incompleta, che abbiamo della rivista MENSILE,  e siamo rimasti colpiti dal linguaggio chiaro, conciso ma acuto  con cui affrontava ogni mese questa o quella questione, che, autonomamente decideva di trattare. Majer è sempre stato un osservatore attento della vita  musicale, nella quale ha anche operato da protagonista per diversi anni, e poteva da solo scegliere l'argomento da trattare.
 Majer cominciò a collaborarvi nel 1994, succedendo a Giorgio Vidusso, impegnato anch'egli nell'attività di direttore artistico,
 Fra i testi delle sue 'Ouverture'  - per i quali Majer indicava sempre anche il titolo - ne abbiamo scelti alcuni che vogliamo, in suo ricordo, proporvi.

Ouverture n.1

Caro Pubblico, ti scrivo...
Ebbene sì, lo confesso: una quindicina di anni fa ho svolto per qualche tempo il lavoro del critico musicale. Ero ( secondo un'espressione in voga all'epoca) un critico molto 'sperimentale'. Nel senso che sperimentava qualsiasi mezzo per riuscire antipatico. In genere ci riuscivo.
 Uno dei miei esperimenti più fruttuosi fu quello di recensire, da un certo punto in poi, anche il pubblico degli spettacoli a cui assistevo.
Ciò mi valse una piccola valanga di lettere - il che fa sempre piacere - ed anche qualche anonimo messaggio di morte sulla segreteria telefonica (meno gradevole).
Tuttavia, ancora oggi trovo che recensire il pubblico sia stata forse l'idea meno ripudiabile di quella lontana esperienza. Anche se sono passato dall'altra parte della barricata, e sono diventato direttore artistico di un teatro,continuo a pensare che il pubblico sia, assolutamente, e debba essere considerato a tutti gli effetti, parte integrante di uno spettacolo.
 Ne sono così convinto che con gli anni ho sviluppato una leggera forma di nevrosi: potrei definirmi un voyer dell'ascolto. Infatti faccio molta fatica ad ascoltare musica da solo. Ho bisogno che ad ascoltare accanto a me ci sia perlomeno un'altra persona. Non mi importa nemmeno il suo livello di competenza: l'importante è che sia lì, e che io possa percepire accanto alle mie le sue sensazioni, metterle a confronto, intrecciarle oppure avvertirle distanti. Insomma, ho bisogno di sentirmi anch'io parte del pubblico. Mi sembra tutto sommato una perversione innocente.
Il pubblico che amo di più, lo dico subito, è quello delle grandi metropoli . Londra, New York - già meno Parigi. E' un pubblico vero. C'è la segretaria che arriva direttamente dall'ufficio, cambiandosi le scarpe in gabinetto, e la giovane dall'Alaska o dalla Nuova Zelanda che sogna un giorno di poter cantare lì. C'è la vecchia coppia di ebrei fuggiti dalla Slovacchia che, a casa, suonano ancora musica da camera seconda una tradizione ormai perduta, e il gruppo di ragazzini francesi dark, dai 16 ai 18 anni, che ascoltano gli U2 ma adorano anche Marilyn Horne ( non è una storia inventata, esistono davvero).
 Del mio pubblico, quello di Torino, posso dire che in genere è un pubblico leale. E' un pò freddino, ma questa freddezza si inserisce nel contesto di una città che ha scelto un profilo bassissimo in ogni manifestazione della propria vita. E sa essere affettuoso: quando gli feci conoscere Esclarmonde di Massenet, fu così contento che mi inviò a casa alcuni mazzi di fiori con biglietti firmati: 'Una spettatrice', o 'Uno spettatore'.
 Ma c'è anche il pubblico che detesto: e non c'è solo a Torino! E' quello che arriva distratto e impreparato alle prime, senza nemmeno degnarsi di leggere la trama ( la trama! non dico la partitura!) dell'opera.
Quello che viene con un disco ben preciso fissato a memoria in testa e misura l'esito della serata dalla maggiore o minore somiglianza con il disco stesso.
Quello che parte prevenuto perché nel cartellone 'non ci sono i Nomi!'
Quello che non applaude nemmeno, proteso com'è nel correre al guardaroba sgomitando.
Quello che non capendone niente, si sente  in dovere di esprimere comunque un giudizio, in genere esordendo con un ' io non ne capisco niente, ma...' e facendolo seguire da una serie di bestialità raccapriccianti.
 Quel pubblico iolo detesto più ancora da spettatore che da direttore artistico. e trovandomelo seduto accanto mi chiedo sempre: ' Ma io e loro siamo qui per la stessa cosa?'.
                                                                                                                    Carlo Majer

 Ouverture n.2

Brioches indigeste dalla Critica
Il mese scorso segnalavo che esiste un settore di pubblico musicale bramoso di ascoltare solo quanto conosce già: e lo paragonavo a quegli italiani in vacanza che mangiano sempre e soltanto spaghetti, anche quando vanno a Reykjavik o Kuala Lumpur.
Quando una forma di pensiero è molto diffusa, va considerata alla stregua di una vera e propria costante antropologica. A me viene da metterla in relazione con il radicato senso italiano della famiglia: perché ad esempio in Gran Bretagna, dove è raro rimanere in famiglia dopo i 18 anni, o negli USA, dove la mobilità su un territorio vastissimo è struttura profonda dell'anima nazionale, la paura pantofolaia del nuovo è assai meno diffusa. Ma non si sono tentati neanche molti correttivi.
Ad esempio, la critica musicale italiana non ha mai compiuto un'opera di autentico proselitismo, invitando i propri lettori ad aprirsi alle bellezze del molteplice. Il problema è che, per farlo, avrebbe dovuto essere seducente, brillante, appassionata, e anche - vogliamo dirlo? - intellettualmente onesta. A leggere il 97%  della critica musicale italiana, invece ci si imbatte in una prosa che può avere solo scopi intimidatori o autocelebrativi. Il poco proselitismo fatto, è stato fatto in maniera maria-antoniettesca, non di rado raccomandando brioches indigeste e pernici sospette. Ciò è stato fatto, perdipiù, basandosi sul gusto individuale del critico, non sul probabile gusto dello spettatore: e non invocando mai il Divertimento o la Gradevolezza, bensì unicamente la Cultura. Che è una bellissima cosa: ma è uno strumento non uno scopo.
                                                                                                            Carlo Majer

 Ouverture n.3

Il signor regista
Si riaprono i teatri d'opera, e puntuali ricominciano sui giornali gli attacchi alla figura del regista d'opera. Di solito questi attacchi vengono da settori culturalmente non brillantissimi, e quindi gli argomenti su cui si basano sono esposti alla buona, senza stare tanto a ragionare.
 Si incomincia parlando di cifre fuori contesto e prospettiva, si denunciano sprechi titanici, si segnalano inauditi stupri, e poi di norma si conclude l'attacco con una domanda retorica: 'Perchè sprecare soldi per un regista, quando basterebbe realizzare le didascalie del libretto e dello spartito?'.
Di solito le domande retoriche non hanno risposta. Ma in questo caso invece una risposta c'è, e - volendosi tenere al livello del dibattito - è molto semplice:' Cari nemici del regista, provate a usare una scatola di supposte basandovi unicamente sul foglietto di istruzioni!'.
Infatti le didascalie vanno comunque interpretate: l'interprete serve proprio a questo. Perfino nel caso di autentici maniaci della didascalia come Illica ( che scriveva pagine e pagine di istruzioni sceniche), le didascalie rimangono equivoche. Vanno ambientate, orientate, realizzate in base agli artisti a disposizione, al momento, al giusto del pubblico locale. Per fare tutto questo, ci vuole gusto, sensibilità, esperienza, auspicabilmente un pizzico di cultura  e certamente un gran senso del teatro. In altre parole, ci vuole il Regista.
 Dopodichè sono il primo a dire che alcuni registi fanno il loro mestiere malissimo. Sono anche il primo a dire che i teatri dovrebbero coprodurre sempre  di più, Ma chiedere l'abolizione del regista nell'opera, è come morire di influenza perché l'aspirina provoca l'ulcera.
                                                                                                                    Carlo Majer


Ouverture n.4

Un tenore come inquilino
Alcuni mesi fa  a Torino un tenore mio amico è andato  con la moglie a visitare un appartamento da affittare: che gli è piaciuto molto, per cui si è accordato sull'affitto e ha chiesto di firmare il contratto il prima possibile.
Qualche giorno dopo, la proprietaria dell'appartamento ha fatto però saper che non intendeva ( testuale) ' portarsi a casa un tenore', anche se di ottima famiglia, con moglie e figlio incantevoli, con le migliori referenza possibili.
Perchè? Perchè era un cantante. Fosse stato un impiegato di banca, nessun  problema: gente per bene! Tranquilla! Ma un cantante!
La signora oltre a ricordarci quell'immortale frasi di Ennio Flaiano secondo cui 'la madre dei cretini è sempre incinta', getta la luce su una diffusa attitudine piccolo-borghese  considerare ancora l'arte come una forma secondaria di dissolutezza e/o una fonte primaria di disturbo.
Su un piano pratico, però, l'episodio segnala quale problema autentico e urgente la casa rappresenti per molti musicisti. A noi piace immaginarla, la Signora, sveglia alle 3 di notte perché l'impiegato di banca sta picchiando la moglie con la padella antiaderente...Ma è una  magra consolazione.
                                                                                                                    Carlo Majer


Ouverture n.5

Karaoke!
Io che non vedo mai la televisione ho scoperto l'esistenza di Fiorello - il popolare presentatore di karaoke - esattamente come quell'astronomo che scoprì l'esistenza del pianeta Plutone non già perché l'avesse visto, ma perché alcune anomalie gravitazionali gli avevano fatto supporre che lì doveva esserci un pianeta. Infatti, io ho scoperto l'esistenza di Fiorello perché una sera sono entrato in una tabaccheria di Torino e ho notato che tutti gli uomini presenti ( tranne me) portavano la coda di cavallo.
Questo succedeva perlomeno diciotto mesi fa. Dopodichè Fiorello è diventato ancora più celebre, si è messo ad occupare le piazze di importanti città, in un paio di occasioni c'è scappato il morto. Sulle pagine dei quotidiani gli intellettuali italiani, turbati, hanno incominciato a porsi e porci (= a porre a noi) una domanda quanto mai profonda e stimolante: 'ma Fiorello è di destra o di sinistra?'.
 Il segreto, o uno dei segreti, del successo di Fiorello probabilmente sta proprio nel fatto che gli intellettuali italiani continuano a farsi domande del genere.
Da parte mia trovo che il karaoke sia, considerate tutte le forme di cretinismo patenti o striscianti nostra civiltà, un fenomeno non preoccupante: che la gente abbia ancore voglia di cantare mi sembra in fondo positivo. Purtroppo, il karaoke nega l'antico principio del fare musica insieme: nel senso che una  cosa è fare musica guardandosi negli occhi, provando e riprovando, è un'altra è cantare improvvisando su una base registrata, guardando una pallina che salta sulle parole.
L'effetto più deleterio del karaoke l'ho comunque rilevato a un concerto di Bruno Campanella al Teatro Regio, dove arrivato il momento del bis il pubblico gridava: 'La marcia del'Aida!', ' Il mattino del Peer Gynt', ' Ritorna vincitor', ' Va pensiero!', come se il coro e l'orchestra del Regio fossero un juke-box.
 Ma non mi sembra un comportamento molto più incivile di quello di tanti 'intenditori' che giudicano un'esecuzione sulla base del disco che conoscono a memoria.
                                                                                                                  Carlo Majer

Ouverture n.6

Il colpo di rasoio
Probabilmente gli spettatori di un teatro d'opera hanno in testa, rispetto alla vita di cantanti, registi, direttori d'orchestra di successo, un'immagine romantica o romanzesca di arte, lusso e libertà: trionfi e fiori, jet privati e regali d'antiquariato, teste coronate e presidenti della repubblica in camerino.
Ma in realtà,salvo pochissime eccezioni, la vita di questi artisti è di grande solitudine. I rapporti autentici, saldi, veri, in questo ambiente sono forse più rari che altrove. Anzi, è già tanto riuscire  a mantenere rapporti di superficie brillanti e non opachi. Soprattutto quando ci si rende conto che il primo metro per misurare il proprio successo (specialmente in Italia) non sono i complimenti, quasi sempre troppo generici per essere credibili: ma l'invidia, che è invece di precisione chirurgica.
Per il resto, la vita è fatta di spostamenti in camere d'albergo o residence, della fatica tremenda di riconoscere le proprie abitudini nella varietà delle esperienze; di pranzi di cene dove si parla solo del proprio lavoro, o dei pettegolezzi relativi; di giornalisti che ti fanno domande cretine; di piccole umiliazioni che speso non bilanciano una marea di applausi. Il momento più alto, quello della recita, sparice nel momento stesso in cui si compie, come una  tela di Penelope... E subito subentra lo spleen, la nostalgia di quanto fatto, se riuscito; oppure la voglia di dimenticare.
In fondo all'animo di qualunque artista d'opera, sospesa fra conscio e inconscio, si annida probabilmente la memoria del grande sacrificio richiesto un tempo ai Primi Uomini, come venivano chiamati nel '700 i castrati: quel colpo di rasoio necessario 'a monte' per  diventare Giulio Cesare o Tmerlano davanti a platee adoranti... Importa molto, o toglie peso al sacrificio, se il rasoio ha preso poi a infierire su altre parti del corpo? Sul cuore, ad esempio? O qualche volta ( duole dirlo) sul cervello?
                                                                                                                 Carlo Majer

Ouverture n.7

Coppie spaiate
In inglese le chiamano odd pairs, in italiano si potrebbero chiamare coppie spaiate. Sono le coppie che coabitano faticosamente all'interno di un medesimo edificio. Che può essere fisico, ma che può anche essere solo concettuale, tipologico, merceologico: Uomo & Donna, Servo & Padrone, Cani & Gatti, Capuleti & Montecchi, Coppi & Bartali, Romanisti & Laziali. Ma forse la coppia più spaiata di tutte è quella formata da direttori artistici e critici musicali: Per descrivere l'andamento serpentino, talvolta viperino dei loro rapporti sarebbe necessario un romanziere che riunisse le virtù di Proust, Musil e Guareschi. In assenza...
In assenza e fuori da qualsiasi polemica: un dato colpisce invariabilmente me direttore artistico, nel mio rapporto ora difficile ora semplicemente delizioso con la critica. Ed è la conoscenza soltanto parziale - nel migliore dei casi - da parte dei critici dei reali meccanismi ideativi e produttivi di un teatro d'opera ( o complesso sinfonico o simile).
Lasciamo stare i casi limite, in cui il giovane critico si stupisce perché a Monselice non è stato invitato Karajan a dirigere l'orchestra. Anche nei critici più attenti e sensibili,a volte, avverto incantevoli ingenuità.
'Perché non avete celebrato il centenario di XY?'.  Risposta: perchè non avevamo i soldi, il teatro disposto a coprodurre, i cantanti, il direttore.
'Perchè non fate una stagione con tutte le Clemenze di Tito  composte da Leo, Hasse, Jommelli, Gluck, Mozart, Mercadante?'. Risposta: perchè il pubblico sarebbe formato da quattro spettatori, cinque se Lei viene con la su Signora.
Gli esempi sono infiniti e si riassumono con difficoltà. Taglierei la testa al toro con una modesta proposta. La creazione dell'istituto a rotazione del critic in residence: ogni critico trascorra - non dico tanto - una settimana in una Direzione artistica (metto a disposizione quella di Torino) e si renda conto dei problemi autentici e contingenti che dobbiamo affrontare noi direttori artistici. Non dico affatto che la nostra categoria sia al di sopra di qualsiasi critica. Dico che spesso non veniamo criticati per  i giusti motivi
Con questo, mi pare proprio di aver creato le premesse per uan nuova età dell'oro: restano da regolare i rapporti fra il Lupo & l'Agnello, la Volpe & l'Uva, e fra i Cigni & le Aquile: che ( stando alla Naturalis Historia di Plinio) pare si trovino reciprocamente detestabili.
                                                                                                                   Carlo Majer

Ouverture n.8

Assenza di modello
Uno dei problemi che hanno turbato più la logica - intesa come disciplina filosofica - di questo secolo è la cosiddetta Produzione in Assenza di Modello. Mi sembra un concetto chiaro: di solito per produrre un qualsiasi oggetto, se ne disegna previamente il modello; per fare un discorso, ci si annota la 'scaletta'; per fare un viaggio si stabilisce un itinerario di massima. Produrre in assenza di modello significa prescindere da tutto ciò.
Negli enti lirici italiani i sovrintendenti e i direttori artistici seguono (sono costretti a seguire) tale prassi. Poco importa che, chi più chi meno, ognuno di loro abbia in testa un modello personale spesso plausibile; e che, in qualche caso, il modello di uno coincida con quello dell'altro.
Neanche molto importa che tali modelli individuali siano riconosciuti internazionalmente, come è successo  ( se è permessa una nota personale) a Torino. Ciò che importa è che non esiste un modello nazionale capace di ridare respiro, dignità e trasparenza a quello che è sicuramente uno dei patrimoni dello spettacolo e dell cultura italiani.
Come si può delineare la crescita di un teatro d'opera se non si a nemmeno di quante risorse si disporrà nel 1996? Come si può credere che il lavoro coscienzioso venga premiato, quando le più importanti decisioni in materia di enti lirici del nuovo governo ( cioè la cosa più vicina ad un modello) sono state quella di sanare lo scandalo dell'Opera di Roma e parare preventivamente un probabile deficit del Teatro alla Scala?
Come si può lavorare giorno dopo giorno in piena coscienza se il quadro è quello di una partita le cui regole vengono cambiate mentre si gioca ( e ove si ha l'impressione che qualcuno bari?). Tutte domande retoriche.
La risposta è: si può procedendo in assenza di modello. Ma tra un pò si smetterà di produrre: in assenza di teatri.
                                                                                                             Carlo Majer

Ouverture n.9

Conservatorio: circolo vizioso
Molti amici mi chiedono che studi far compiere ai loro figli che vogliono diventare compositori, direttori d'orchestra, strumentisti o cantanti. La mia risposta, salvo rarissime eccezioni, è: 'qualunque tipo di studio, ma preferibilmente non in Italia, e sicuramente NON in un Conservatorio'. E a seconda dell'epoca dell'anno e dell'umore,passo a spiegare perchè. Ad esempio...
Quest'estate, il Teatro Regio di Torino ha bandito un'audizione per clarinetto: hanno risposto CENTONOVANTOTTO clarinettisti, ognuno di loro ovviamente munito di regolare diploma. Alcuni erano bravi, ma la maggior parte no.
Cosa triste ma vera: questa maggior parte non troverà, né in Italia né - tantomeno - all'estero, se non forse nelle orchestre di liscio. L'unico alto sbocco lavorativo è la speranza, un giorno, di insegnare in Conservatorio, secondo un disegno didattico che gli esperti chiamano: 'circolo vizioso'.
Altro esempio: porte ad ascoltare, in un'audizione per artisti del coro, i cantanti che escono (anche loro regolarmente diplomati) dai Conservatori italiani. La stragrandissima maggioranza non solo non ha (o non ha più) voce, ma per una interessante deroga al buon senso, non è nemmeno seriamente capace di leggere uno spartito o di accompagnarsi al pianoforte: quanto alle conoscenze di storia della musica, per la maggior parte di loro Gluck era un cantautore che lavorava con Celentano.
Altro esempio, e per ora finisco: fate un giro per le grandi associazioni musicali straniere, e guardate quali e quanti sono i musicisti  o cantanti italiani che vi lavorano. Una volta fatta una lista, telefonate loro e chiedete loro il curriculum: vedrete che la maggior parte o semplicemente non ha fatto il Conservatorio, o ha fatto seguire al Conservatorio una ricca mese di studi aggiuntivi e/o riparatori.
La domanda inevitabile è: a cosa servono i Conservatori? E la risposta altrettanto inevitabile è: come molte istituzioni in Italia servono principalmente a mantenere e riprodurre se stesse. Non sono più al servizio della realtà. Pretendono che la realtà s metta al loro servizio.
                                                                                                                        Carlo Majer

Ouverture n.10

Glyndebourne chiama Roma
Lo scorso maggio ho visitato, prima che venisse inaugurato, il nuovo teatro di Glyndebourne. Come è noto questo microscopico villaggio del Sussex ospita da oltre mezzo secolo un festival prestigioso. Era nato, il festival, come passatempo di un ricco industriale sposato ad un soprano mozartiano: oggi è un'impresa finanziaria dal budget equivalente a quello di un ente lirico italiano.
Il nuovo teatro ospita 1200 posti, ha un palcoscenico d'avanguardia e una serie di spazi secondari di livello mondiale. Il tutto è incorniciato in un progetto architettonico che si sposa mirabilmente con le costruzioni vicine e on il paesaggio. E' stato costruito a tempo di record, ed è costato l'equivalente di circa 80 miliardi. Buone notizie, certo, ma non avete ancora sentito la migliore: lo Stato e gli enti locali non hanno erogato un solo penny. Tutto l'intervento è stato finanziato con capitali privati e donazioni da par
Primo, che possibile finanziare la cultura in maniera agile ed efficace. Secondo, però, che questo equivale a un onere maggiore sullo spettatore: il costo dei biglietti in queste condizioni non può essere 'politico'. Terzo, che lo Stato deve agevolare gli investimenti e le donazioni dei privati nel settore della cultura. E quarto, d'altra parte, che la grande borghesia deve assumersi con pienezza di responsabilità il ruolo di promotrice di cultura.
Questo in Italia, diciamolo non si è visto quasi mai - per non dire proprio mai. A riprova, offro un abbonamento gratis a teatro a chi mi segnali un mecenate disposto a investire ( probabilmente a fondo perso) o donare 200 milioni per mettere in scena La volpe astuta di Janacek. Questo a Glyndeborune è già capitato e continua a succedere.
                                                                                                                Carlo Majer

P.s. 
Questi testi si offrono ai nostri attenti lettori e a chi, in futuro, eventualmente, volesse raccogliere per qualche editore lungimirante, gli scritti di Carlo Majer.
                                                                                                                   








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