venerdì 30 giugno 2017

Il Festival di Spoleto ha trovato il suo Bob Wilson 'de noantri'


Con il Don Giovanni di Mozart che ieri sera ha inaugurato la sessantesima edizione dell'ex Festival dei Due Mondi ( che ora si chiama semplicemente Festival di Spoleto, e di mondi ne abbraccia non più due, ma tutti, anzi tutto il mondo,' Il Mondo in scena', secondo l' acuta espressione della sua attuale direzione) si è conclusa la trilogia 'italiana' Da Ponte -Mozart che, in tre edizioni consecutive, ha impegnato la stessa compagine orchestrale, la 'Cherubini' di Muti ( alla quale quest'anno s'è aggiunta l'Orchestra sinfonica dei Conservatori italiani - e speriamo che sia la resurrezione definitiva!), lo stesso direttore d'orchestra, James Conlon, gli stessi scenografi e costumisti, i due famosi premi oscar ( Ferretti- Lo Schiavo), ed anche lo stesso regista, ribattezzato il Bob Wilson 'de noantri', alias Giorgio Ferrara, che da dieci anni tiene stretto nelle sua mani lo scettro spoletino, e lo terrà ancora per almeno altri tre, causa la recente sua riconferma.

 Giorgio Ferrara si è attribuita la regia della trilogia 'italiana' di Mozart, debuttando praticamente nella regia d'opera. E già questa è di per sé una scelta molto avventata, perchè certe opere sono il coronamento di una carriera e non il primo esperimento, il debutto.
Naturalmente le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. S'è inventato, in combutta con il suo drammaturgo di fiducia, De Ceccatty (drammaturgo e biografo di sua moglie, la celebre Adriana Asti, presenza fissa sul palcoscenico spoletino nella gestione Ferrara) una visione nuova ( antichissima, secondo la coppia Ferrara- De Ceccatty, perché attinta al famoso testo mozartiano di Kierkeegard, del quale si  proiettano per essere letti alcuni lacerti nel corso della Ouverture) che vuole Don Giovanni non tanto 'dissoluto punito' - come poi avviene - e neppure 'seduttore seriale', che vive per il 'piacere della conquista' ma colui che lotta, per allontanarla finchè è possibile, contro la signora con la falce, la morte.

E da questo, il Bob Wilson 'de noantri' fa scaturire la sua idea di regia. Cimiteri, tombe, donne velate con la falce ad ogni piè sospinto, luci cupe, oscurità, per dirci: guardate che le conquiste continue di Don Giovanni sono un espediente per 'passare il tempo', mentre ha intrapreso una lotta contro la morte che con ogni conquista spera di allontanare sempre più, sentendosi, conquista dopo conquista, sempre più - o ancora - vivo.

Ma che fa Il nostro Bob Wilson 'de noantri' in questa 'città di morti'? Fin dall'inizio anche nei momenti di coinvolgente seduzione, nei momenti quindi di maggiore vitalità, ci mostra tombe sulle quali sono seduti tutti i protagonisti, come morti viventi, cadaveri non ancora putrefatti ed in attesa di essere rianimati, ma solo per cantare la loro parte. Anche la esemplare seduzione della giovane Zerlina - quanta ricchezza di umana fragilità nel suo personaggio – diventa una specie di 'visita al cimitero, per il giorno dei defunti'.

Una noia 'mortale', è il caso di dire, che per poco non dava il colpo di grazia anche alla musica di Mozart. Che Ferrara non considera  coprotagonista assieme all'azione, nel capolavoro teatrale. Perchè azione non ve ne è – e, del resto come poteva immaginarsene fra tanti morti viventi? - riducendo l'opera allo stesso invariabile schema, dall'inizio alla fine.

I protagonisti, vengono in proscenio - quando non sulle passerelle laterali, grande invenzione, e nuova soprattutto, che fa il paio con la discesa, alla fine, in platea dei protagonisti come anche del Commendatore in carne ed ossa, un morto vivente che compare nelle ultime file della platea, mentre in palcoscenico viene trascinato il suo capoccione - cantano la loro aria e, nei momenti di più convulso movimento, i loro pezzi 'd'insieme', e poi, senza neanche accelerare il passo, escono.

Questa la regia, e del resto cosa ci si poteva aspettare, viste le premesse? Ora, non vi aspettate che qualcuno scriva le stesse nostre cose. Come potrebbe farlo Repubblica, tanto per fare un esempio, media partner del Festival che qualche giorno fa ne ha fatto il panegirico: che non è più né quello di una volta e tanto meno quello di Menotti, ma che comunque Ferrara ha resuscitato portando nella cittadina umbra ogni anno le stesse vecchie glorie, in una passerella tristissima, funebre; e, quest'anno, molte firme dei giornali di De Benedetti, anche in palcoscenico? Il Corriere, per ora, celebra Menotti, a dieci anni dalla scomparsa, visto che non lo fa il suo festival.

Non solo. L'antichissima canzone che i protagonisti intonano dopo la fine del dissoluto, e cioè: Questo è il fin di chi fa mal, a Spoleto non vale. Perché Ferrara, con tutti i suoi demeriti, non viene spedito altrove, ma riconfermato, per almeno tre anni ancora. E poi si vedrà, perché lui come Don Giovanni, lotta strenuamente contro la fine (della sua direzione, s'intende!), con tutti i mezzi, e forse riuscirà ad allontanarla ancora, almeno finché potrà contare sull'amministrazione comunale, sul ministro e sui salotti che un qualche potere l'hanno sempre. Tutti compiacenti.

Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretario del ministero di Franceschini ha affermato che Ferrara ha salvato il Festival di Spoleto: "Credo che la strada presa da Ferrara sia quella giusta, cioè un’offerta che coniuga altissima qualità, sperimentazione ed eventi di tanti tipi, come i confronti e i dialoghi. Con questa formula ha salvato un grande festival che stava rischiando di morire. Se i prossimi tre anni di Ferrara saranno nel segno della continuità? Sì, ma il teatro è vivo e quindi si rinnova continuamente, così come le idee".





P.S. Finalmente la diretta televisiva ha trovato un suo commentatore adeguato. Francesco Antonioni, che sa quel che dice ed anche come dirlo, abituato da anni di radio, a Radio 3. Peccato che la sua partner, Federica Guerzoni (si chiamava così?), apprezzabile per la sua grazia ed il bell'aspetto, dica solo cose ovvie e banali, dette anche in modo trasandato, nel suo ruolo di 'brava presentatrice', inutile e perfino dannosa, forse, per il danno che può fare una trasmissione televisiva.



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